Lettera 12 (Seconda Serie)

Cari amici,

Torniamo con questo numero sul tema della povertà o meglio dei poveri e la chiesa e lo facciamo prendendo spunto da una discussione che, partendo dai fratelli Boff ha coinvolto in vario modo teologi e comunità ecclesiali.

Il tema non è secondario e non coinvolge solo il giudizio da dare sulla Teologia della Liberazione, ma riguarda il posto che i poveri hanno e debbono avere nella Chiesa. Sapete che questo e un tema che ci sta particolarmente a cuore e su cui volentieri apriremmo un dibattito su queste pagine con i nostri lettori.

Non parleremo come competenti, né pensando di dire una parola autorevole, ma in quanto cristiani che sulla realtà poveri-povertà stanno giocando la loro vita.

Gli stessi vescovi al Concilio, pur avendo ciascuno il loro teologo di riferimento, non hanno indetto un concilio di teologi. Noi laici (non pastori, né vescovi, né teologi) abbiamo il dovere di riflettere e di dire una parola, che sappiamo non essere definitiva, ma anch’essa soffio dello Spirito.

Presentiamo dunque un estratto degli interventi dei fratelli Boff pubblicati per intero da Adista e dal Regno con una nota di Josè Comblin, seguiti da una relazione di Ghislain Lafont, monaco e teologo, cui uniamo una sintesi del dibattito nel Gruppo de “La Tenda”.

Ricordiamo poi, per chi non avesse avuto modo di partecipare o di leggere i testi del Convegno che abbiamo tenuto col titolo “I poveri e la chiesa” nell’autunno del 2007, che si possono trovare sul nostro sito www.latenda.info andando su “Nuove Lettere de La Tenda” e poi sui numeri dal 6 al 9. Nello stesso sito non possiamo che raccomandarvi ancora una volta i testi integrali dei discorsi e dei documenti del cardinal Lercaro.

 

Dopo più di due anni di spedizione di queste Nuove Lettere de “La Tenda” diamo poi un breve resoconto economico. Come vedrete le cifre sono piccole ma un aiuto anche finanziario è comunque sempre gradito.

Sommario della 12° lettera

  1. Confronto tra Clodovis e Leonardo Boff sul metodo della Teologia della Liberazione con una nota di Josè Comblin
  2. Riflessione di Ghislain Lafont, monaco e teologo
  3. Discussione su questo confronto nel gruppo de “La Tenda”
  4. Breve resoconto economico

Confronto tra Clodovis e Leonardo Boff sul metodo della Teologia della Liberazione

– Clodovis Boff: per la teologia della liberazione (da ora TDL), il punto di partenza deve essere la Realtà dei poveri. Ma essa non vede che confonde i due sensi in cui si può intendere il “punto di partenza”: come mero inizio (materiale, tematico, cronologico o pratico) o come principio (formale, ermeneutico, epistemologico o teorico). Ora “povero” può essere il punto di partenza come “inizio” ma non come “principio”.

Sul piano teologico la TDL va perdendo il carattere suo proprio per adottare un tono più sociologico e politico. (…) Essa perde anche la fecondità teorica, in quanto le sue produzioni si riducono sempre più a mere variazioni sullo stesso tema.(…)

La TDL insiste a ragione a riferirsi all’esperienza di Dio nel povero: è il dramma sociale dell’America Latina, fatto di povertà, oppressione, esclusione.

Per ottenere realmente la liberazione però c’è bisogno più che solo “liberazione”; c’è bisogno – diciamolo senza paura – di Salvezza! Solo la trascendenza redime l’immanenza. Senza questa trascendenza, la fede è vista, prima di tutto, come funzione della liberazione dei poveri.

  • Leonardo Boff (rispondendo a Clodovis): Clodovis Boff nel suo testo, nella parte in cui affronta la modernità, mostra un pessimismo culturale presente anche in molti gruppi di chiesa, specialmente in settori importanti in Vaticano, che tendono a vedere della modernità il lato oscuro più che le sfide da assumere e su cui riflettere. E questo non è un bene per l’evangelizzazione come la insegnano la “Gaudium e spes” del Vaticano II e la “Pacem in Terris” (1963) di Giovanni XXIII.

Le sue dure critiche non fanno giustizia alla TDL realmente esistente, rendono insicuri gli operatori pastorali e confondono i poveri che hanno sempre visto in questa teologia una fonte di speranza e una motivazione per l’impegno liberatore.

In altri scritti Clodovis Boff ha enfatizzato a ragione che non possiamo ridurre il povero ad una visione economicista ma che è importante aprirsi alle diverse forme di povertà con le loro corrispondenti liberazioni. Ci sorprende il fatto che nel suo testo abbia dimenticato questa sua visione e abbia assunto di nuovo il concetto di povero in senso economicista, come colui che manca di mezzi di vita. Con ciò ha dimenticato la prospettiva tipica che la TDL ha conferito al povero, come trasparenza dell’Incarnato e del Crocifisso tra noi.

Infine mi permetto di confessare come vedo il compito essenziale del teologo nel seno della comunità cristiana e nel cuore del mondo: a noi è stata affidata la cura della Luce Santa che arde in ogni cuore umano e sostiene la vita, la resistenza e l’impegno liberatore dei poveri e degli oppressi. La nostra missione è alimentarla permanentemente perché, se si offuscasse, quello che c’è di più sacro e degno dell’essere umano si trasformerebbe in una stella morta e ciò significherebbe un tuffo nell’abisso.

  • Clodovis Boff (in un nuovo intervento): Non ho abbandonato, né intendo abbandonare la TDL… parlo da dentro il progetto originario di questa teologia, che è quello di dare voce ai poveri, a partire dalla fede della Chiesa. Il punto focale che qui è messo in discussione non è tanto la dottrina teologica, ma il suo metodo.

Torno a ribadire che il principio determinante della teologia è, e può essere solo la fede in Cristo. L’opzione per i poveri e la loro liberazione viene di conseguenza e può essere senz’altro un principio secondo, privilegiato finché si vuole, ma non il principio primo e determinante.

– Josè Comblin:. Clodovis vuole indicare che l’essenza della teologia è professare che “Cristo è il Signore”. Penso che tutti i teologi lo sappiano e che nessuno lo discuta. Ma il problema è un altro. Il problema è: chi dice “Cristo è il Signore”? Dove? Quando?

Il ruolo della teologia non consiste nel cercare quali siano le parole che esprimono la fede, ma quello che è la fede realmente vissuta.

Chi non è povero, può apprendere dai poveri, a condizione di essere molto umile. Gesù ha vissuto l’impotenza, la fragilità dei poveri. Per intenderlo è necessario entrare nella stessa condizione.

Gesù Cristo è il centro del Regno di Dio, il centro di tutta la storia della salvezza, il centro di ogni vita di discepolo. Ma non si tratta del nome “Gesù Cristo”, bensì della realtà. Ora, questa realtà di Cristo si manifesta soltanto a chi vive in lui, con lui, facendo la stessa esperienza umana. Per questo c’è una centralità della povertà come accesso alla centralità di Gesù Cristo.

D’altro lato, nei vangeli Gesù si identifica con i poveri. Quello che è dato ai poveri, è dato a lui. La cristologia tradizionale si è concentrata attorno ai dogmi dei quattro primi concilii e alla teoria anselmiana della redenzione. Questo vuol dire che era molto parziale, molto particolare, centrata su poche questioni. Storicamente, appaiono nuove questioni che obbligano a situare tutto in un modo nuovo. Nuove letture della Bibbia fanno sì che appaiano nuove prospettive.

I poveri non occupano il posto di Cristo, ma essi hanno un luogo speciale, fondamentale, centrale in Cristo. Che la teologia della liberazione muoia o meno, non importa. Ma dopo Medellín la teologia non potrà continuare ad essere quello che era.

 Riflessione di Ghislain Lafont monaco e teologo.

Anzi tutto vorrei farvi presente il cambiamento di visuale che è occorso nella storia umana con la scoperta di Copernico-Galileo, cioè che sia la terra a girare attorno al sole e non il contrario, che corrisponde però alla testimonianza dei nostri sensi. Prima della scoperta, il mondo è pensato come è visto : una struttura verticale che va dal Cielo alla terra, ambedue spazi fissi, l’uomo essendo stabile sulla terra ed orientato verso il cielo, mediante appunto la sua struttura verticale che gli concede di guardare in alto. Ecco lo spazio. Quanto al tempo, è una durata breve (se facciamo i conti a partire dal dato biblico): quattro mila anni prima di Cristo, millecinquecento (oggi più di due mila) dopo Cristo. Una struttura dunque spazio-temporale che l’uomo poteva immaginare e nella quale, finalmente, tutto ciò che è accaduto d’irregolare, d’instabile, è venuto dall’azione umana e specialmente dall’azione negativa, la quale richiedeva una riparazione multiforme.

Se poi, andando oltre l’uomo individuale fisso sulla terra fissa, cerchiamo di pensare la politica, sia civile, sia religiosa, vediamo nascere l’idea gerarchica. Il potere, fondamento di ogni governo, viene dall’alto. Il potere assoluto proviene dall’Essere assoluto, al di sopra di tutto, alla cima di tutto e scende da Lui su delle persone scelte, elette, la cui saggezza, legata a una percezione squisita della realtà divina e di quella finita, consente di dirigere gli uomini non su dei cammini nuovi, ma nella fedeltà alle strutture fisse tanto del mondo che dell’umanità. Questa caratteristica gerarchica, già quasi evidente per la politica civile, è ancora più necessaria quando si tratta della salvezza del peccato, opera propria di Cristo, il cui ministero è comunicato a dei ministri scelti e dotati di poteri eccezionali, tra i quali quello essenziale di rimettere i peccati.

La scoperta di Copernico-Galileo appare allora come un terremoto: mette l’uomo, e soprattutto l’idea e l’immagine di se stesso e del mondo, in una grande instabilità. Come interpretare questo girare? Come riconciliarlo con la nostra conoscenza sensibile, che non dice ciò che dice la costruzione matematica di Copernico? Come riconciliarlo con tale pagina della Scrittura che parla secondo l’immaginazione spontanea, quella cioè del sole mobile e della terra fissa? Dove allora è il vero? Tali questioni raddoppiano la loro intensità man mano che la scienza si sviluppa. Al tempo di Galileo il sole era fisso, la terra no. Oggi, sappiamo che il sole appartiene a una galassia mobile, lo spazio dell’universo è quasi infinito, il tempo risale a delle durate inimmaginabili… Tutto è evoluzione, movimento. In questo mondo quasi senza limiti, quale valore possiamo dare all’uomo, piccolo essere perduto su un pianeta a dimensioni ridotte? Più profondamente, come pensare Dio, come pensare l’Incarnazione su questa piccola terra? Quanto alla questione più precisa, ma molto concreta, della società e del potere, al livello sia politico, sia ecclesiastico, l’idea gerarchica tanto legata all’immagine fissa e verticale del mondo, conserva un fondamento oppure dobbiamo cambiare prospettiva?

Un dramma non piccolo nella storia della civiltà è che la Chiesa cattolica, condannando Galileo, ha chiuso gli occhi sulla verità oggettiva del mondo, si è dunque sottratta alle problematiche che ho appena accennate e ha continuato a pensare su una traccia ormai superata. Invece, le problematiche che nascevano dall’immagine nuova di un mondo in perpetua evoluzione non sono state considerate dai cattolici. Se durante il primo millennio della Chiesa, un confronto difficile certo, duro, polemico, ma anche positivo c’è stato tra la cultura greco-latina e la fede cattolica, niente di simile si è trovato dopo Galileo: i pensatori dell’epoca moderna sono tutti protestanti, oppure ebrei o atei. I cattolici hanno vissuto in un regime d’interdizione: di leggere, di pubblicare… Un pensiero cattolico moderno non c’è stato, né al livello teologico (intelligenza della fede nelle categorie moderne) né al livello politico o ecclesiastico. Ancora una volta, tutte le opere notevoli che possiamo leggere oggi e che risalgono al XVII, XVIII e buona parte del XIX, le dobbiamo a degli autori non cattolici. È un guaio incredibile che la Chiesa non abbia offerto la sua riflessione originale. Era certo un compito difficile: si trattava in fatti di confrontare la Rivelazione e la modernità, ma in modo tale che gli acquisiti del periodo classico non andassero perduti. Ora questi acquisiti procedevano da un confronto tra una fisica ormai superata e la Rivelazione. Anche la metafisica (legata alla fisica tradizionale) doveva essere sottomessa a un esame critico, senza però che fossero annullati i frutti

teologici, come ad esempio il “consustanziale” (dalla parola “sostanza” d’impronta aristotelica). Lavoro è difficile dunque, ma non impossibile e comunque da tentare, checché siano i frutti dell’indagine. E, come dicevo, lo sforzo necessario per la riflessione teologica è necessario anche per il pensiero politico, che si tratti della politica civile o ecclesiastica.

Il conflitto tra i due Boff può spiegarsi in questo contesto. Da un lato, la teologia classica era rimasta fuori dalla congiuntura reale e intellettuale della modernità: le verità e i valori che difendeva, pur autentici che fossero, erano sconnessi dal presente reale e ideologico della gente; d’altra parte, questo presente mancava delle correzioni e precisazioni che avrebbero dovuto portargli la teologia classica. Boff Leonardo insiste sull’importanza di tener conto del contesto concreto dell’America latina e dell’interpretazione cristiana che deve corrispondere: donde un pensiero e una pratica centrata sul “povero”, come concetto e realtà di base, chiave per l’interpretazione della storia della salvezza e molla per l’azione liberatrice.

Nella situazione critica del mondo di oggi, bisogna, se vogliamo comprendere qualcosa ed agire in modo consapevole ed effettivo, prendere un po’ di distanza e delineare una prospettiva che dia un fondamento forte alla Speranza.

Ora dunque torniamo al Disegno globale di Dio, come Paolo ci lo propone nelle Lettere, più specialmente forse nelle lettere della Cattività, Efesini cioè e Colossesi. Dall’inizio Dio pensa a Cristo risorto e trasfigurato, nel quale il mondo, gli angeli, gli uomini faranno un solo Corpo in uno stato permanente d’invocazione filiale e fraterna. Non è ingenuo considerare i periodi, in gran parte difficili e pieni di morte e di violenza, della storia come delle tappe misteriose che ci conducono verso questo fine di trasfigurazione. Bisogna forse insistere su questo punto perché, pur rivelato che sia, non è stato messo abbastanza in valore nel cristianesimo occidentale fino ad un’epoca recente, quella appunto del Concilio Vaticano II. La storia era troppo considerata dal punto di vista del peccato, sopratutto il cosiddetto “originale”, di modo che l’Incarnazione stessa del Figlio di Dio era strettamente legata al peccato : “se l’uomo non avesse peccato, non avremmo avuto bisogno di Cristo”. L’accento era sulla remissione dei peccati, la Redenzione. Oggi, non pensiamo più così: se Dio si è comunicato, se è in un certo senso uscito da sé, non si vede nessuna ragione di limitare il Dono: volendo darsi, Dio l’ha fatto totalmente; di per sé la Creazione è orientata verso

l’Incarnazione per l’ultima Trasfigurazione di tutti in Cristo – ciò che è l’oggetto appunto della nostra speranza. La misericordia si manifesta nel fatto che il peccato non ha messo un punto finale a tale dinamica. Dio invece ha perseverato, soltanto le condizioni concrete dell’Incarnazione sono cambiate. Dobbiamo allora considerare la concretezza della storia, con tutte le sue lotte, come una successione di passi, finalmente positivi, verso la Trasfigurazione, anche se il peso del male mette la sua forte impronta sulla storia. Non siamo, per così dire, dei meccanici che passano il loro tempo a riparare le macchine, ma piuttosto gli operai d’una grande “macchina”, il mondo trasfigurato in Cristo; il lavoro certo è difficile ma merita di essere intrapreso. Si tratta evidentemente di un atto di fede: per dire che il mondo va male, basta aprire gli occhi, guardare alla tivù che non ci lascia ignorare niente di tutto ciò che accade, e cosi via. Per leggere una Speranza in tale processo, bisogna ascoltare una Rivelazione e credere.

Questo detto come premessa fondamentale, bisogna entrare in una prospettiva più precisa sulla storia, che ci darà delle chiavi d’interpretazione che potranno aiutarci a discernere le situazioni presenti, e nel caso che ci occupa oggi, la controversia tra il fratelli Boff.

Clodovis Boff pensa che l’insistenza sul “povero” è stata tanto sottolineata, per dei motivi sociali e politici, che l’autenticità rivelata di Gesù Cristo rimane offuscata, il che rende inefficaci quei sforzi culturali che non sono più abbastanza radicati nella fede. In termini positivi, si potrebbe dire che, sì, Gesù è “il” Povero, mentre sia la congiuntura socio-politica che la Scrittura ci spingono a scoprire il significato centrale di tale Nome e gli atteggiamenti concreti che corrispondono. Tutta la difficoltà però giace nella valutazione giusta delle due sorgenti: socio-politica e rivelata. Più precisamente: in quale misura possiamo reinterpretare il dato rivelato, espresso durante il primo millennio in termini legati a una cultura ormai superata, alla luce della modernità, ma senza cancellare l’elemento cristiano essenziale e non “negoziabile” manifestato durante il primo millennio? Si potrebbe dire che tutti e due i Boff hanno ragione in ciò che affermano, e cioè l’originalità della Rivelazione di Cristo da una parte e la verità del contesto umano globale dall’altra, e forse hanno torto in ciò che negano, cioè l’influsso innegabile dell’altro discorso sul loro proprio. La discussione non riesce a trovare uno spazio che sarebbe abbastanza comune ad ambedue per permettere una discussione e una pratica armonizzate. Ancora una volta: non possiamo rinunciare sia alla figura del mondo, evolutiva e dinamica, efficace ma troppo spesso squilibrata ed ingiusta dell’oggi, sia all’originalità del Vangelo, rivelazione del Figlio di Dio che non può essere ridotta a delle dimensioni puramente umane. E, come ho detto prima, non siamo aiutati a trovare le posizioni giuste, dal fatto che durante cinque secoli la Chiesa cattolica è rimasta al margine nella controversia, mentre la società andava sul proprio cammino senza essere penetrata dalla ricchezza cattolica, anzi opponendosi ad essa, visto che non proponeva niente all’immagine nuova del mondo. Un’altra difficoltà per un discorso teologico equilibrato proviene dal fatto che, in un mondo in evoluzione e in lotta, la pratica fa parte della teologia.

Non si tratta solamente di pervenire a dei concetti accettabili, anzi illuminanti per tutti, ma di impegnarsi in una pratica di liberazione, non soltanto spirituale ma ancora umana. A questo livello pratico, che richiede un impegno quasi totale, sembra difficile e forse inutile produrre un discorso teorico. L’emergenza c’è, il dovere di far fronte, c’è; soltanto dopo si potrà ragionare, e le ragioni saranno influenzate dalla lotta precedente. Questo è vero, fino a un certo punto però: ogni lotta mira alla vittoria, ma è proprio per questo che si sviluppa secondo una strategia e delle tattiche capaci di condurre alla vittoria, mentre, d’altra parte, le vicende vissute aprono l’intelligenza a nuovi punti di vista strategici e tattici: lo stesso vale per la lotta spirituale ma anche per le lotte che potremmo dire sociali e “cristiane” quando cercano la vittoria sull’ingiustizia e il male. Non si può chiedere a una persona, eventualmente a un teologo, che si trova in prima linea in una lotta, di trovare di primo acchito le formule e le strategie totalmente giuste. Queste si rivelano man mano che l’azione si sviluppa, però non si deve rimanere troppo sotto o in margine al livello delle nozioni fondamentali della fede.

In questo contesto però, mi piacerebbe appoggiare un atteggiamento “pluralistico”. Nelle discussioni, specialmente quando, come nel caso dell’America latina, hanno un impatto concreto importante, vorremmo pervenire a una “verità” indiscutibile, da accettare per tutti. E, per noi cattolici, tale desiderio si trasforma spesso in una richiesta rivolta al Magistero della Chiesa, che chiuda la discussione. Non penso che questo sia l’atteggiamento giusto, forse la verità c’è, ma se c’è, si trova laddove le posizioni si oppongono, nel confronto, nelle decisioni concrete a volte opposte tra di loro. Non si può isolare una verità dalla discussione dove si cerca : il “logos” esiste soltanto nel “dialogo”, il che suppone l’ascolto delle proposizioni che vengano, l’affermazione delle proposizioni proprie, un certo cammino in comune (quando è possibile) per un certo tempo. La “verità vera” opera in questo modo. In altri termini – ma questo sarebbe un altro discorso – la

verità avviene mediante l’amore, il quale suppone la diversità riconosciuta e gestita di modo che non Il Bene sia raggiunto, ma che la via verso di lui rimanga sempre aperta.

Discussione nel gruppo de “La Tenda”.

– Lorenzo D’Amico: Non è il dibattito che mi preoccupa, anzi questo è indice di buona salute ecclesiale, ciò che vorremmo veder evitato è il mettere in bocca all’altro cose che l’altro non ha detto, vorremmo invece vedere crescere un sano confronto del popolo di Dio aiutato dal vescovo locale.

Certamente dobbiamo imparare a leggere sempre di più la Bibbia e la vita non solo con la testa dei filosofi, ma anche e soprattutto con gli occhi dei poveri. E’ bene poi ricordare le parole di Karl Rahner: ”Il modo normale di correggere gli errori è discuterli.” Discutere per approfondire e non per sbarrare; ci sono poi diagnosi che hanno bisogno di proseguire con un intervento operatorio, ma non si può discutere con il bisturi in mano.

Dice Jon Sobrino: “Non mi sembra adeguato richiamarci al passato come se questo fosse geloso di se stesso e superiore a qualsiasi presente, come se l’oggi di Dio rimanesse in penombra.”

– Pio Parisi: Nella “Cattedra dei piccoli e dei poveri” avevo fatto una riflessione, un appello ai piccoli ed ai poveri perché rimangano piccoli e poveri, perché sono gli unici che capiscono qualcosa a differenza dei grandi e dei ricchi. Ci sono alcuni che stanno molto ai margini, è in quelli che bisogna sperare. Mi sembra ci sia la preoccupazione di arrivare ai capi che hanno il potere di cambiare le cose, ma loro non possono cambiare niente. Se si torna al Vangelo si trova: “ …il Signore ha nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli.”

– Chiara Flamini: Io non credo molto alle verità proclamate, mi paiono più utili e credibili le verità vissute. Se dico ai miei ragazzi a scuola: “bisogna tenere pulito”, spesso questo non ha nessuna conseguenza, se, mentre dico, mi chino per raccogliere ciò che sporca, questo ha una grande forza. Temo una gerarchia che crede di poter snocciolare verità senza viverle.

– Luigi Mochi Sismondi: Questo si ricollega a ciò che diceva Ghislain poco fa: se abbiamo ancora la Chiesa ciò è dovuto alla ricchezza di chi ha amato piuttosto che agli studi di coloro che hanno proclamato le verità.

La verità non è un patrimonio statico da conservare tale e quale di generazione in generazione, è invece un processo dinamico non distaccato dall’amore. Ciò che capiamo senza amore si ferma ad un punto davvero insufficiente; neanche le moderne scoperte scientifiche possono prescindere dall’amore, dall’empatia. Senza la capacità di rimettersi in discussione non si difende nulla, rimane lettera morta. Ciò che dispiace nei due fratelli Boff, uomini che non si sono reclusi nel piccolo mondo accademico, ma hanno realmente vissuto e amato, è che a questo punto ecco che nel loro non dialogo emerge una mancanza di amore. Piuttosto che discutere su chi di loro abbia ragione, dobbiamo chiederci perché non si è verificata questa possibilità di incontro in modo da arricchire entrambi e la Chiesa tutta con questa loro ricerca?

– Giuseppe Musumeci: De Benedetti riporta alcune regole del sinedrio di Gerusalemme, in particolare si sofferma sul fatto che non era consentito condannare a morte alcun se su quella condanna si era raggiunta l’unanimità. La spiegazione ufficiale era che dove non c’è alcuna forma di dubbio o di dissenso, lì non è presente il Santo Benedetto; la condanna non è pertanto giusta.

In tempi, come questi, in cui vige, anche nella Chiesa, il pensiero unico, e come l’unicità della dottrina e dell’orientamento pastorale sembra essere diventato un obiettivo da perseguire, quell’insegnamento mantiene la sua attualità.

A proposito di splendore delle verità, Grossmann presenta un racconto dei chassidim (ma non sono sicuro se sia quella la fonte): due rabbini erano in discordia sull’applicazione delle regole, soprattutto in materia di sabato, uno era molto rigido, l’altro proponeva una applicazione moderata. Il rabbino rigido, alla fine, si convinse e, camminando camminando (era appunto sabato), si accingeva a superare il miglio di passeggiata consentita. L’altro rabbino lo fermò e gli disse: “Attento, non superare il miglio che ti è consentito in tempo di sabato, perché così perderesti la tua identità.”

Vorrei poi riprendere questo dialogo dalla conclusione del ciclo di ‘Uomini e Profeti’ (programma in onda sabato e domenica mattina su Radio 3) su Moby Dick, nel quale Gabriella Caramore dialoga con Barbara Spinelli.

Caramore.: “Sul tema della verità volevo ricordare che lei ha tenuto una conferenza molto bella all’Università, Lei l’ha intitolata “Lo splendore delle verità”. Se le chiedessimo di farci una sintesi, di dirci un solo pensiero di questo suo percorso”

Spinelli: “Dire un solo pensiero è esattamente il contrario di quello che ho sostenuto”

C.: “Questo è già un buon indizio. Ce ne dica due, allora”

S.: “La cosa che posso dire è che se c’è una speranza che possiamo avere, se c’è un punto fermo che possiamo avere nella nostra vita… è la speranza che ci siano sempre due possibili pensieri, o almeno due, perché … ancora meglio se ce ne sono tre o quattro o cinque, una pluralità di pensieri, perché naturalmente tutti sogniamo di avere un forte punto di riferimento, una forte idea su una cosa. Non riusciremo mai ad averla … se non la confrontiamo in maniera seria con idee contrarie altrettanto forti, nella quale possiamo temprare la nostra idea, vedere i suoi punti deboli, correggerla.

C.: “Questo non è ovviamente relativismo ma è accettazione del relativo.”

S.: “Sì, e anche rendere più forti le idee perché il rifiuto della molteplicità di verità conduce ad avere la certezza di avere una forte verità, ma una forte verità tutta da sola piano piano non la capisce più nessuno, e diventa un dogma che bisogna imporre con il potere.

C.: “Invece la verità va cercata assieme agli altri.”

– Maria Dominica Giuliani: Ero in RDCongo quest’estate ed in un ospedale, la Pediatria di Kimbondo a Kinshasa, c’erano più di 500 bambini, bambini che nessuno tornerà a prendere perché orfani civili o di guerra, bambini conosciuti uno per uno, amati uno per uno; ci si prende cura di loro per la salute, per l’istruzione, per il lavoro, per una prospettiva di vita. Cosa c’è dietro tutto questo? C’è una donna, una dottoressa italiana oramai 89enne, allettata che dal suo letto controlla tutto, e un sacerdote claretiano cileno, pediatra, che ha preferito rinunciare alla nomina a Vescovo di Cuba per tornare tra questi bambini, che cura e segue costantemente nella giornata, riservandosi solo una mezz’ora di silenzio e contemplazione. Bambini con cui celebra un’eucaristia allegra e al tempo stesso molto dolorosa e molto vera. Tornando a Roma sento di aver vissuto una TDL che dà gioia, lì senti di essere dentro un flusso di amore, non romantico, molto concreto.

– Francesco Cagnetti: Ciò che dobbiamo favorire è un incontro-confronto tra fratelli, favorito dal Vescovo locale. Se demandiamo alla Curia ogni parola definitiva, renderemo il popolo di Dio sempre meno capace di comunicare. E’ necessario sviluppare il dialogo tra TDL e “Teologia ufficiale”.

– Marco Noli: Ognuno deve fare la propria parte, noi la nostra qui.

– Gianfranco Solinas: Il rischio è che i teologi parlino solo tra loro. Occorre parlare più delle nostre vite che delle nostre teorie.

– Rosetta Chiesa: La TDL ha sempre aiutato a riflettere, è una provocazione a cercare.

– Micaela Soressi: Nelle due lettere dei Boff molti termini vengono usati nei due sensi opposti.

– Giovanna Liberati: Il termine “povertà” in Italia è a volte equivoco.”Sono povero perché non ho tutto ciò che mi viene proposto, e di cui sento il bisogno.” Occorre sapersi liberare del superfluo.

– Solange Peruccio: Occorre sapersi liberare dal consumismo, noi e i nostri familiari.

– Francesco Cagnetti: Saper dare messaggi positivi, alternativi.

 

Breve resoconto economico.

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Marco Noli, Ostia Nuova Roma

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