Lettera 11 (Seconda Serie)

Cari amici,

Come avevamo chiesto, molti contatti e riscontri sono seguiti alla lettera precedente. Le molte persone in dialogo con noi confortano e rinvigoriscono il nostro tentativo di rimettere in moto la comunicazione nella Chiesa di Roma. Per chi avesse perso qualcuna delle nostre lettere ricordiamo che tutte le lettere, e molti dei documenti presentati sono sul nostro sito www.latenda.info .

Dopo molti anni in cui il centro della vita politica non è stato il bene comune ma le leggi economiche, ora che tali leggi entrano in fibrillazione, si pensa a vie di fuga; i telegiornali poi che riempiono le nostre case di sangue e crimini non fanno altro che far crescere ondate di panico. Non vogliamo creare oasi di pace, vogliamo guardare a questo nostro tempo con tutte le sue difficoltà, ma contemporaneamente e soprattutto desideriamo vedere, riflettere, vivere e comunicare alcuni segni di speranza già esistenti, perché anche noi possiamo costruire o evidenziare vere strade di speranza. Per questo, come avevamo annunciato, in questo numero cercheremo di allargare la visuale e rifletteremo su due realtà distanti da noi ma particolarmente significative, due realtà in cui “il bene” si fa strada a fatica ma in maniera visibile in situazioni particolarmente difficili: sono l’esperienza della “Comunità di pace” di S. José de Apartadò in Colombia, e quella del microcredito della Banca dei Poveri di Muhammad Yunus.

Aspettiamo vostri riscontri e contributi. Facciamo notare ancora che gli uomini e le donne che hanno creato queste realtà positive non sono solo stati provvisti di amore, speranza e coraggio ma sono stati anche capaci di farsi interrogare e correggere da ciò che stavano costruendo e dalle persone che hanno incontrato.

Sommario della 11° lettera

 

  1. Lo Spirito soffia dove vuole: la scommessa di Muhammad Yunus per un mondo senza povertà relazione di Francesco Cagnetti Pag. 2
  2. Un caminar en dignidad: la Comunità di pace di S. Josè de Apartadò in Colombia relazione di Luigi Mochi Sismondi Pag. 7

“Lo Spirito soffia dove vuole”: la scommessa di Muhammad Yunus per un mondo senza povertà

a cura di Francesco Cagnetti

  1. Dalla cattedra al villaggio

Muhammad Yunus è un bengalese. È nato nel 1940 a Chittagong, principale porto mercantile del Bengala.

Laureato in economia nella sua città natale, ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università Vanderbilt di Nashville. Ha poi insegnato alla Middle Tennessee State University dal 1969 al 1972.

Nel 1972, data dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, torna in patria dove, dal ’72 all’89, ricopre la carica di direttore del dipartimento di economia dell’Università di Chittagong.

Il Bangladesh indipendente fa parte del Commonwealth; ha una superficie di 147.570 kmq e una popolazione che supera i 150 milioni di abitanti, con una densità di 1066 abitanti per kmq (in Italia la densità è di 192 ab. per kmq).

Nel 1974 il Bangladesh fu colpito da una violenta inondazione, le cui conseguenze sulla popolazione furono spaventose:

“la produzione agricola e il reddito pro capite crollarono bruscamente e milioni di abitanti non furono più in grado di procurare cibo per le loro famiglie.[…] morirono centinaia di migliaia di persone nell’apparente indifferenza del resto del mondo”[1].

Fu allora che Yunus avvertì, di fronte alla fame e alla povertà, la vacuità delle eleganti teorie economiche che insegnava. Decise così di fare subito qualcosa per aiutare la gente.

Il suo primo tentativo consisté nel creare, insieme ai contadini del villaggio di Jobra, un’associazione per la gestione di un pozzo di profondità e di un sistema di distribuzione dell’acqua. I contadini riuscirono così a fare un terzo raccolto durante la stagione secca, normalmente improduttiva.

Sennonché da questa realizzazione non potevano trarre benefici i più poveri del villaggio, quelli che non possedevano terre e che dovevano sbarcare il lunario lavorando a giornata, facendo qualche lavoro artigianale o mendicando.

“Le loro case”, scrive Yunus, “ quando ne avevano una, erano senza mobili e si riempivano di fango se pioveva. I bambini erano fortemente malnutriti e dovevano lavorare o mendicare invece che andare a scuola. Sotto i morsi della carestia erano loro, i più poveri fra i poveri, i primi a morire.”

Yunus cercò di capire le ragioni di questa condizione: non era mancanza di buona volontà, ma era “la disperata impossibilità…di procurarsi la benché minima quantità di denaro che consentisse loro di organizzare gli sforzi che facevano per sopravvivere”[2].

Fu Sufiya, una donna che fabbricava con notevole abilità eleganti sgabelli di bambù, che gli spiegò perché, nonostante il suo lavoro, non riusciva a tirar fuori la famiglia dalla povertà: lo strozzino che le anticipava il denaro per comprare il bambù pretendeva in cambio che gli consegnasse tutta la produzione al prezzo che lui stabiliva.

Yunus decise allora di fare un elenco delle vittime di questo strozzinaggio nel villaggio di Jobra, e alla fine si trovò con i nomi di quarantadue vittime che avevano preso a prestito complessivamente meno di ventisette dollari di allora.

Offrì allora di tasca sua i ventisette dollari, e l’entusiasmo che suscitò per questo piccolo aiuto lo convinse ad andare avanti: “se potevo rendere felice tante persone con una somma così irrisoria” egli scrive” perché non fare le cose in grande?”[3]Dopo aver tentato invano per diversi mesi di persuadere le banche a fare prestiti ai poveri, decise di cambiare strategia, offrendosi come garante di tali prestiti.

La banca accettò, e quando Yunus cominciò a distribuire i soldi, rimase sorpreso dai risultati: i poveri restituivano le somme, sempre e alle scadenze pattuite.

2) Dal villaggio ai villaggi

Non essendoci speranza di cambiare le regole di condotta delle banche, Yunus finì per decidere di fondare una banca esclusivamente per i clienti poveri. Finalmente, nel 1983, la banca dei poveri vedeva la luce nel quadro di una legge varata apposta per renderla possibile. Essa prese il nome di Grameen Bank (“grameen” in bengali vuol dire villaggio).

Oggi la banca concede prestiti a oltre sette milioni di poveri, il 97 per cento dei quali sono donne[4], sparsi in settantottomila villaggi del Bangladesh; essa realizza regolarmente un utile, è diventata finanziariamente autosufficiente e non ha più accettato donazioni a partire dal 1995.

A commento di questi risultati,Yunus afferma:

“I poveri sono come i bonsai. Se il miglior seme di un albero gigantesco viene piantato in un vasetto di fiori di dieci centimetri, si otterrà una replica perfetta dell’albero, ma sarà alta soltanto un paio di spanne […]

I poveri sono un popolo bonsai. Non c’è niente che non va nella loro costituzione, è solo che la società non ha mai concesso loro un contesto favorevole alla crescita. Tutto quello che dobbiamo fare per farli uscire dalla povertà è creare condizioni adatte alla loro attività”[5].

Queste considerazioni ci inducono a dedicare qualche riga alle convinzioni antropologiche di Yunus, frutto di uno sguardo fiducioso, non ideologicamente ottimista ma nutrito di esperienza, sulla natura dell’uomo.

Riguardo alla fattibilità e alla vitalità di un’impresa con finalità sociali, messe in dubbio da banchieri e uomini d’affari, egli ribatte che il mondo capitalista si basa su un’antropologia riduttiva, su una visione dell’uomo unidimensionale. Per esso esiste solo l’homo œconomicus teso al perseguimento del massimo profitto individuale. Pertanto per esso l’idea di investire sui poveri è un nonsenso, e un’impresa che si basa sulla generosità umana è destinata a vita breve.

All’opposto, Yunus riconosce in ogni essere umano

“un istintivo e naturale desiderio di rendere la vita migliore per tutti”

tanto è vero che

se potesse scegliere, preferirebbe vivere in un mondo senza povertà, malattie, ignoranza e sofferenze[6]

Da qui la spinta a donare miliardi di dollari in carità, a creare fondazioni, organizzazioni non governative e no profit, a dedicarsi al volontariato, a rinunciare ad incarichi meglio retribuiti per prestare la propria opera nel Terzo settore.

Analoghe convinzioni sulla complessità della natura umana, ignorate dalla scienza economica e dal sistema bancario, motivano la fiducia di Yunus nei destinatari della sua opera.Fiducia che tuttavia non è cieca: la singola persona beneficiaria del prestito non va lasciata sola, ma va incoraggiata e sostenuta nel suo impegno.

Perciò la Grameen Bank inserisce ogni donna “cliente” in un gruppo di cinque amiche, scelte in modo che fra loro non vi sia nessuna coppia di parenti strette:

“Se una del gruppo vuole accedere a un prestito bisogna che anche le altre quattro siano d’accordo. Sebbene ciascuna sia responsabile del proprio prestito, il gruppo funziona come un piccolo network sociale capace di fornire incoraggiamento, supporto psicologico e in certi momenti anche aiuto pratico per affrontare il peso inconsueto del debito e guidare ciascun membro del gruppo nell’inusitato “mondo degli affari”[7]. Ma neanche i gruppi di cinque persone agiscono da soli. Ogni settimana c’è una riunione a cui partecipano dieci o dodici di questi gruppi e che si tiene sotto una tettoia costruita nel villaggio da loro stesse. Di questi “centri di riunione” ce ne sono centocinquantamila in tutto il paese e ciascuno di questi viene utilizzato da cinquanta o sessanta socie della banca.

Alla riunione settimanale un rappresentante locale della banca raccoglie le rate di restituzione dei prestiti in corso, vengono presentate le richieste di nuovi prestiti e si portano avanti una serie di attività che vanno dalla discussione di idee per nuove attività commerciali, a comunicazioni di carattere sanitario o finanziario e a brevi intervalli di esercizio fisico.

La direzione di ognuno di questi gruppi è affidata a una persona eletta democraticamente da tutte le altre”[8].

3) Un passo in avanti nella lotta contro la povertà

È così che Yunus ha ideato la sua banca del villaggio: una istituzione che unisse in sé alcuni tratti peculiari rispetto alle altre forme esistenti di solidarietà coi poveri, tali da garantire ad essa continuità e agilità, e d’altra parte da suscitare l’iniziativa e la creatività dei destinatari.

Per mettere in evidenza la novità della sua impresa, Yunus dedica alcune pagine ad una analisi critica delle varie forme di intervento contro la povertà, segnalandone vantaggi e limiti.

Una prima constatazione:

“Nel 2000 i governanti di tutto il mondo si sono riuniti all’Onu per impegnarsi, tra l’altro, a ridurre della metà il numero dei poveri entro il 2015. Ma sono già passati sette anni e i risultati sono deludenti, al punto che quasi tutti gli osservatori concordano nel ritenere che gli “Obiettivi di sviluppo del millennio” non saranno raggiunti”[9]

Come mai?

“La spiegazione è molto semplice. Il libero mercato, senza vincoli di sorta, così com’è oggi concepito, non è pensato per affrontare i problemi sociali, anzi, può portare ad aggravare povertà, inquinamento e disuguaglianze e a diffondere malattie, corruzione e criminalità”

“L’esperienza mi ha insegnato che il libero mercato è uno strumento potente e utile anche per affrontare problemi come la povertà globale o il degrado ambientale, ma solo a patto che non sia posto esclusivamente al servizio degli obiettivi finanziari dei soggetti economici più ricchi”[10].

Yunus passa poi ad esaminare l’azione politica dei governi.

Essa esercita indubbiamente, specie nei paesi più sviluppati, un’azione di controllo sul mercato a favore dei consumatori. Ma sebbene possa influenzare il modo in cui le aziende si comportano nelle loro attività, essa non può indirizzarle verso quegli obiettivi che sono per loro poco interessanti.

Per vari altri motivi lo stato non è in grado di risolvere radicalmente i problemi sociali: inefficienza, lentezza, corruzione, burocrazia, tendenza a perpetuare la propria struttura.

Inoltre:

“L’uomo politico è per sua natura tenuto a render conto del mandato ricevuto e il fatto che un gruppo si aspetti che il governo tenga conto dei suoi interessi e faccia pressione sugli eletti per ottenerne l’appoggio è una caratteristica fondamentale del sistema democratico […]

Si pensi per esempio agli Stati Uniti con il loro irrazionale, raffazzonato e inefficiente sistema sanitario, che lascia decine di milioni di persone prive di assistenza medica, e dove finora è stato impossibile dare vita a una riforma del sistema a causa dell’azione di lobby esercitata dalle potenti aziende farmaceutiche e dalle società di assicurazione.”[11]

Conclusione: lo stato deve fare la sua parte, ma da solo non è in grado di risolvere i grandi problemi sociali.

Yunus esamina poi il ruolo e i limiti delle organizzazioni senza fini di lucro: esse si rivelano spesso efficaci, soprattutto nei momenti di crisi, ma neppure loro sono in grado di fronteggiare i grandi problemi sociali:

“Infatti la carità si basa su una sorta di tracimazione dell’eccesso di ricchezza prodotto dall’economia, e nei periodi in cui questo flusso di ricchezza si contrae, nei momenti difficili, proprio quando i poveri ne avrebbero più bisogno, ecco che le donazioni diventano rare e l’aiuto cessa. Ma anche nei momenti buoni, quando l’economia tira e le disponibilità aumentano, c’è un limite alla porzione di reddito che la gente è disposta a destinare alla beneficenza”.[12]

Inoltre, il flusso continuo di notizie e informazioni provenienti da tutto il mondo fa sì che “la parte del leone la fanno i disastri più drammatici che monopolizzano le cronache televisive e le donazioni, mentre disagi meno pubblicizzati ma magari altrettanto gravi e distruttivi vengono ignorati. Alla fine comincia a farsi strada fra la gente una sorta di “saturazione da compassione” e, banalmente, nessuno dà più nulla.”[13]

Neppure le istituzioni multilaterali, create e finanziate dai governi, quali ad esempio la Banca mondiale, hanno avuto grande successo nel perseguire i propri obiettivi:

“Proprio come i governi, sono strutture burocratiche, conservatrici, lente e, spesso, interessate soprattutto a perpetuare la propria esistenza. E proprio come accade con le organizzazioni no profit, soffrono di una cronica carenza di fondi”[14]

Esse ritengono di poter ridurre la povertà unicamente stimolando la crescita economica su larga scala, anche se in concreto ciò non porti alcun beneficio alle classi più povere della popolazione, o addirittura avvenga a loro spesa.

C’è poi in questa strategia un ulteriore, fondamentale limite:

“[Essa]…cerca di mettere in moto l’economia, aspettandosi che anche i poveri vengano “trascinati” da questo movimento, ma in realtà li considera come degli “oggetti”. È un’impostazione che finisce per non cogliere l’enorme potenziale che i poveri, specialmente le donne e i bambini, hanno dentro di sé, negando loro qualsiasi ruolo autonomo”[15]

Infine, organizzazioni non governative e movimenti ecologici, no global ecc., hanno fatto pressione sulle aziende perché modificassero il proprio atteggiamento a proposito di diritti dei lavoratori, ambiente, qualità e prezzi dei prodotti, equità nei rapporti commerciali, ottenendo significativi risultati.

Tuttavia, neppure la responsabilità sociale d’impresa è capace di risolvere i problemi della società: spesso le aziende ne fanno un uso distorto, secondo una teoria che potrebbe essere così riassunta:

“realizza il massimo profitto possibile anche se per farlo devi sfruttare i poveri, ma destinane poi una piccola parte a sostegno di iniziative sociali o per la creazione di una fondazione che persegua un  programma che risulti utile agli affari della tua azienda. E non dimenticarti mai di pubblicizzare quanto generosa è la tua azienda!”[16]

È come se queste aziende dichiarassero:

“Sceglieremo un comportamento aziendale socialmente responsabile finché questa scelta non ci precluda il raggiungimento del massimo profitto possibile”[17]

4) Che cos’è l’impresa con finalità sociali

L’impresa con finalità sociali, precisa Yunus,

“… pur producendo beni e servizi con l’obiettivo prioritario di conseguire uno specifico miglioramento sociale, viene gestita con gli stessi criteri adottati dalle imprese tradizionali e quindi è in grado di perseguire il recupero totale dei costi e, se possibile, anche qualcosa di più, attraverso la vendita dei suoi prodotti o servizi a un prezzo adeguato”[18]

Inoltre, a differenza delle istituzioni caritative e delle organizzazioni no profit, l’impresa con finalità sociali ha dei proprietari che hanno diritto al recupero degli investimenti fatti.

Una volta recuperati i capitali investiti

“…sta agli investitori decidere cosa farne: possono reinvestirli nella stessa impresa, oppure in un’altra, oppure in un’azienda orientata al profitto, o anche spendere quei soldi come desiderano. Qualunque sia la

scelta, non perdono il titolo di proprietà sull’impresa, della quale continuano a detenere la quota corrispondente all’investimento fatto e a esercitarne il controllo in proporzione”[19]

D’altra parte, gli eventuali profitti conseguiti dall’impresa non vengono distribuiti come dividendi, ma vengono reinvestiti nell’impresa stessa al fine di migliorarne il servizio e ridurne i prezzi.

Elencare e descrivere tutte le imprese con finalità sociale create da Yunus e dai suoi collaboratori dal 1983 al 2006 richiederebbe uno spazio non compatibile con la finalità meramente introduttiva del presente articolo.

Nei suoi scritti Yunus propone un elenco di sogni da realizzare entro il 2050 che vanno dall’eliminazione della povertà a quella delle frontiere, dalla distruzione degli arsenali militari a una scuola davvero per tutti fino alla pace stabile per tutti e alla fine di ogni discriminazione per razza, censo, religione o cultura.

Non credo che i sogni di Yunus si realizzeranno entro il 2050 e tuttavia ha fatto bene ad elencarli: forte della testimonianza data con la sua opera (chi l’avrebbe creduta possibile?), egli vuole suscitare in noi fiducia nelle immense potenzialità degli esseri umani, strapparci dalla nostra scettica stagnazione in un presente senza passato né futuro, renderci consapevoli di quanto siamo distanti dalla meta a cui la nostra natura ci destina.

“Un caminar en dignidad”: la Comunità di Pace di S.José de Apartadò

a cura di Luigi Mochi Sismondi

Presentiamo l’esperienza di questa comunità così lontana da noi. Come potete immaginare non ne ho alcuna conoscenza diretta, solo quello che ho letto e poi quel che ho visto nel piccolo DVD che ha prodotto la Rete Italiana di Solidarietà con le Comunità di Pace Colombiane, eppure mi pare importante a questo punto del nostro cammino occuparci della vita di queste persone che rappresentano in questo momento, insieme forse al villaggio di Bil’in in Palestina, quello che ci è dato di vedere di più simile all’ideale di una lotta nonviolenta applicata a una realtà di guerra.

Io credo che la lotta nonviolenta contro la guerra, l’ingiustizia e la distruzione dell’ambiente naturale sia una necessità di cui sempre di più ci renderemo conto. Come cristiani che cercano nella propria vita di vivere davanti a Dio coscienti della propria responsabilità, sappiamo che il Padre ha affidato nelle nostre mani il compito di lottare per cambiare la situazione di ingiustizia e di violenza che ci troviamo di fronte. Se non lo facciamo noi non c’è chi può farlo per noi.

Allora l’esempio della Comunità di Pace di S. Josè ci aiuta a capire che questo è possibile anche se a prezzo di fatiche e dolori che parrebbero insopportabili.

Abbiamo parlato della cattedra dei poveri e dei piccoli e questo è un bell’esempio in cui piccoli e poveri, aiutati da una solidarietà attenta e partecipe hanno molto da insegnarci.

Raccontiamo ora per sommi capi la storia di questa comunità:

Dopo che, nel conflitto che da anni oppone esercito e paramilitari alle FARC, fra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, i gruppi paramilitari commisero due massacri nel territorio di San Josè de Apartadò, è aumentato lo sfollamento forzato delle famiglie verso altri luoghi. Di fronte a questa situazione e conoscendo la gravità del problema dello sfollamento forzato a livello nazionale, il vescovo della Diocesi di Apartadò Monsignor Isaías Duarte Cansino (assassinato poi forse dalle FARC nella città di Cali), propose la costituzione di spazi neutrali dove fosse garantito il rispetto alla vita ed all’integrità della popolazione civile. In questo modo, la Diocesi e le istituzioni come Giustizia e Pace (della Conferenza dei religiosi della Colombia) ed il Centro di Investigazione ed Educazione Popolare (CINEP), propongono alle Comunità di resistere allo sfollamento costituendosi come zona neutrale, a tale scopo si sono tenuti numerosi incontri di formazione che hanno sviluppato una riflessione collettiva sulle implicazioni di questa proposta. Al termine di questo percorso le varie frazioni presenti nel Comune di Apartadò hanno deciso di costituirsi come Comunità di Pace, poiché la definizione di zona neutrale era, secondo i contadini, manipolata dal governo regionale per favorire la strategia antiguerriglia sviluppata dalle forze militari e paramilitari.

San José de Apartadò si è dichiarato Comunità di Pace il 23 di marzo del 1997. Circa 500 contadini, appartenenti a 17 frazioni, hanno deciso di organizzarsi per allontanare la guerra dal loro territorio, di non collaborare con alcun gruppo armato, di sviluppare un processo di neutralità in un paese dove la neutralità è severamente combattuta da tutti gli attori armati.

Cinque giorni dopo la dichiarazione, il 28 di marzo, la zona è stata sottoposta ad un intenso bombardamento aereo, forze militari e paramilitari sono entrate nelle varie frazioni e, oltre ad alcuni scontri con le formazioni guerrigliere delle FARC, hanno assassinato molti contadini ed ordinato ai sopravvissuti di abbandonare le loro case entro cinque giorni. Questo ennesimo sfollamento forzato è stato in qualche modo scongiurato dalla Commissione Intercongregazionale di Giustizia e Pace che ha proposto alle famiglie di riunirsi nel villaggio di San Josè de Apartadò impegnandosi per un accompagnamento

permanente in loco. Da questo momento, la Comunità ha sviluppato un processo di formazione ed organizzazione che le ha permesso di essere un interlocutore per il governo nazionale e per le istituzioni nazionali ed internazionali. Grazie a questa attività è stato possibile realizzare il ritorno di un buon numero di famiglie.

In questo modo, con la strategia di vivere in Comunità e lavorare in gruppo (come misura di sicurezza), i contadini hanno riconquistato poco a poco il territorio perso ed ora sperano di creare le condizioni per il ritorno di tutte le famiglie nelle proprie terre.

Il processo di organizzazione e di rafforzamento della Comunità di Pace, ha implicato un alto costo in vite umane. 86 persone appartenenti alla Comunità di Pace e circa 20 persone che vivevano nella stessa area, sono state uccise da formazioni guerrigliere, dall’esercito e soprattutto dalle formazioni paramilitari.

La irremovibile decisione di continuare il processo di resistenza non violenta nonostante i continui attacchi e le minacce, ha reso la Comunità di Pace di San Josè de Apartadò meritevole del premio Pfeffer della pace, assegnato dalla rivista Fellowship of Reconciliation degli Stati Uniti.

Verso la costruzione di una strategia integrale di resistenza per la difesa civile

Quello che ha avuto inizio come urgente necessità di trovare alternative per la difesa della vita e del territorio, si è convertito rapidamente in un processo più ambizioso che cerca di proporre e praticare un progetto di vita alternativo all’attuale modello di società. Questo progetto per la vita costruito dalla Comunità di Pace nei suoi 10 anni di esistenza, ha un carattere tridimensionale, nel senso che implica tre processi realizzati contemporaneamente e intimamente correlati tra loro:

• Resistenza alla guerra e allo sfollamento forzato, come meccanismo di protezione della popolazione civile in un contesto di forte conflitto armato.

• Sviluppo integrale e sostenibile: si realizzano sforzi per rafforzare l’organizzazione e la coesione comunitaria, potenziare la sua strategia di economia alternativa e proiettare nel futuro la sua crescita integrale.

• Costruzione della pace: oltre alla pratica quotidiana di forme nonviolente di relazione e convivenza, la Comunità di Pace condanna permanentemente l’uso della violenza, si dichiara pubblicamente favorevole ad una soluzione politica e negoziata del conflitto armato, si sforza di diffondere negli spazi locali, regionali e nazionali la sua esperienza di resistenza civile alla guerra, orientando altre comunità locali interessate a creare meccanismi di protezione civile in contesti di guerra.

Per la realizzazione di questo progetto di vita, la Comunità di Pace porta avanti una serie di attività essenziali e complementari tra loro, che abbiamo preferito organizzare in termini di strategie favorendo una maggior comprensione dei successi di questa esperienza di resistenza civile, sviluppo integrale e costruzione della pace dal basso. Qui la nonviolenza rappresenta una linea strategica trasversale che incrocia le dinamiche del processo.

Strategia economica

Mira alla creazione delle condizioni materiali necessarie per la sopravvivenza e per la costituzione di processi di sviluppo economico sostenibile che diano la possibilità ai membri della Comunità e ad altre famiglie della zona di vivere degnamente. Implica la produzione per la sicurezza alimentare (fondamentale in una zona di guerra in cui non si possono avere certezze sull’offerta e sulla normale circolazione dei prodotti di prima necessità) e la produzione per il mercato (l’economia comunitaria dipende fondamentalmente dalla coltivazione del cacao e del banano baby, attraverso il pagamento di un prezzo equo ai produttori, a tal fine la Comunità ha ottenuto una riduzione significativa del numero degli intermediari che operano nella zona). Ne derivano i seguenti punti di forza:

  • La supremazia dell’interesse collettivo su quello individuale: la Comunità di Pace si batte per la costruzione di un’economia solidale che metta al centro della sua attenzione, la soddisfazione delle necessità primarie e la vita dignitosa delle persone, e che contrasti il modello economico imperante basato sull’individualismo, l’esclusione, la concentrazione del capitale e della terra. Il lavoro comunitario fa sì che tutti e tutte partecipino alla soddisfazione dei bisogni della collettività.
  • Il lavoro come spazio di realizzazione personale e comunitaria. La Comunità di Pace è suddivisa in gruppi di lavoro, nessuno dei suoi membri ha un padrone, ognuno è responsabile verso il proprio gruppo. In una regione in cui storicamente il lavoro è stato sinonimo di sfruttamento, la posizione dei “produttori autonomi” impegnati in una proposta di economia solidale, si presenta come un’alternativa che contesta le precarie condizioni lavorative esistenti e che rafforza una visione del lavoro come qualcosa che favorisce la realizzazione della persona e della collettività
  • La proprietà collettiva e la funzione sociale della terra . La Comunità di Pace possiede 330 ettari di terra comunitaria nei quali i gruppi di lavoro portano avanti le proprie attività produttive. L’esistenza dei terreni comunitari contrasta con la proprietà privata della terra che, a causa della guerra, si è concentrata vertiginosamente in poche mani. In questo modo, la proprietà collettiva si costituisce anche in un simbolo e in uno strumento di resistenza nonviolenta rispetto al dominio di un modello economico escludente che spoglia i contadini della terra.

Strategia politica

La nascita della Comunità di Pace, ha modificato radicalmente la maniera di rapportarsi con le componenti contro-statali, statali e para-statali presenti nella zona. La radicalizzazione della guerra e la barbarie hanno obbligato i contadini ad inventarsi forme nuove per affrontare la rispondere con proposte innovatrici capaci di contrastare la nuova situazione di disputa del territorio da parte dei vecchi e dei nuovi attori del conflitto.

La creazione della Comunità di Pace è prima di tutto un atto politico determinato dall’autoriconoscimento degli abitanti come soggetti sociali e politici disposti a reclamare la sovranità nei loro spazi vitali ed il rispetto dei loro processi e dei loro diritti fondamentali da parte dei belligeranti.

Questo processo di resistenza rappresenta una possibilità di decentralizzazione del potere, sottrarre potere ai soggetti politico-militari ed aggiungerlo alla popolazione civile, vale a dire, delegittimare le basi del potere dei gruppi dominanti e creare le condizioni per stabilire altre forme relazionali e di convivenza.

La strategia politica si propone fondamentalmente di costruire relazioni che contribuiscano, da un lato, a diminuire la pressione sulla Comunità di Pace e, dall’altro, a rafforzare le sue capacità di resistenza. Questo tessuto di relazioni si realizza ad un livello locale, nazionale e internazionale. A livello nazionale si deve sottolineare la creazione dell’Università Contadina della Resistenza e della Rete di Comunità in Resistenza, RECORRE. La Comunità di Pace di San Josè de Apartadò è riuscita ad entrare in un interessante processo di mondializzazione del locale.

Strategia di coesione comunitaria

I principali aspetti che rafforzano l’unione all’interno della Comunità sono:

Accordo normativo per la convivenza. L’accordo statutario della Comunità di Pace ha rappresentato, soprattutto nella tappa iniziale della resistenza, un importante fattore di coesione dei nuclei familiari che abitavano in diverse frazioni e che, a causa di motivi totalmente estranei alla loro volontà, si ritrovarono improvvisamente a condividere lo stesso spazio vitale. L’osservanza del principio fondante della neutralità ha rappresentato il comune denominatore e l’elemento coesivo della collettività.

Ecumenismo integrale. Con tale espressione vogliamo indicare il dialogo e la convivenza di persone con diverse identità religiose e politiche. La Comunità garantisce la libertà di culto e favorisce la convivenza tra persone appartenenti a credi religiosi differenti. Si cerca di privilegiare le celebrazioni ecumeniche alle quali partecipano tutti i suoi membri. Oltre alla religione cattolica, che è predominante, esistono a San Josè, cinque Chiese Evangeliche: Pentecostale, Avventista, Latina, Presbiteriana e Panamericana. L’ecumenismo si rivela, quindi, un meccanismo importante per preservare la Comunità e la convivenza comunitaria Il rispetto per le differenze e la maggiore attenzione posta in ciò che li unisce, piuttosto che in ciò che li separa, è una posizione che favorisce la coesione collettiva e il lavoro congiunto.

Formazione integrale. Dalla sua costituzione, la Comunità di Pace ha attribuito alla formazione una grande importanza, non solo con le famiglie e i coordinatori dei gruppi di lavoro appartenenti alla Comunità, ma anche con altre famiglie della zona. Il comitato di formazione concentra i suoi sforzi nel rafforzare la valutazione permanente del processo di resistenza civile; promuove la gestione e la trasformazione dei conflitti, così come la prevenzione del coinvolgimento dei bambini e dei giovani nei gruppi armati.

• Rafforzamento della memoria collettiva. Per la Comunità di Pace la memoria significa: esigenza permanente di verità, di giustizia e di riparazione; non diventare complice dell’impunità e delle azioni dei carnefici; prevenire la realizzazione di nuovi crimini; raccogliere le bandiere dei martiri e continuare la loro missione; facilitare l’elaborazione del dolore per la perdita dei propri cari; usare la verità come elemento essenziale per curare le ferite e i traumi lasciati dalla violenza; denunciare le strutture di ingiustizia e impunità.

• Riaffermazione e riappropriazione del territorio. A partire dallo sfollamento forzato del 1997, la Comunità ha pianificato e promosso tre ritorni collettivi ad alcune frazioni della zona, recuperando in tal modo parte del territorio rubato dalla guerra. I ritorni non soltanto contrastano l’intenzione degli attori armati di spopolare il territorio, ma si configurano anche come elemento di prevenzione di nuovi sfollamenti forzati. Effettivamente, la riaffermazione dei centri abitati che costituiscono la Comunità di Pace rivela una importanza strategica per gli abitanti della zona, poiché si trasformano in centri di accoglienza delle famiglie sfollate per le quali la possibilità di restare sul territorio facilita il ritorno alle loro proprietà, quando le dinamiche del conflitto nella frazione dalla quale sono stati allontanati, lo permettano.

Strategia di protezione

Si riferisce a tutte le azioni realizzate dalla Comunità di Pace per diminuire il rischio di violazioni dei diritti umani dei suoi membri e del proprio processo di resistenza civile.Per la sua protezione, la Comunità di Pace realizza attività come: denuncia pubblica delle violazioni commesse da tutti gli attori armati; identificazione degli spazi comunitari attraverso cartelli in cui sono scritti i suoi principi; diffusione del processo di resistenza attraverso la realizzazione di brevi pubblicazioni, documentari, incontri nazionali e internazionali all’interno del suo territorio, viaggi nazionali e internazionali e dalla fine del 2004, anche con la creazione della propria pagina web; richieste di attenzione rivolte al governo nazionale mediante la presentazione di numerosi diritti di petizione, richieste di attenzione rivolte ad Organismi Internazionali, grazie alle quali si è sviluppata la promulgazione da parte della Commissione e della Corte Interamericana dei Diritti Umani di misure provvisionali e cautelari destinate ad evitare altri danni irreparabili alla Comunità e a far pressione sulla impunità e sui crimini commessi; reazione collettiva di fronte alla presenza degli attori armati negli spazi vitali della Comunità; implementazione di sistemi di vigilanza e allarme; protezione di persone minacciate; accompagnamento giuridico e internazionale sia attraverso la presenza fisica di volontari stranieri nella Comunità di Pace, sia attraverso l’appoggio politico e economico che Organizzazioni ed Enti locali internazionali possono offrire. Attualmente sono presenti nella Comunità di Pace volontari delle Brigate Internazionali di Pace (PBI) e dell’International Fellowship of Reconciliation (IFOR). In Italia, diverse associazioni ed enti territoriali hanno creato “La Rete italiana di Solidarietà con le Comunità di Pace “Colombia Vive!” con la quale la Comunità di Pace di San Josè di Apartadò ha un’attiva comunicazione motivata, inoltre, dal patto di fraternità esistente tra il Comune di Narni, coordinatore della Rete, e la Comunità di Pace.

Dopo questa relazione voglio mettere in luce solo qualche punto di riflessione:

  • Questo movimento che nasce su ispirazione di un vescovo, Mons. Isaias Duarte Cansino poi assassinato nel 2002, è stato accompagnato dalla presa di posizione attiva dei cristiani organizzati.
  • La chiarezza dei metodi nonviolenti viene esplicitata subito in alcune chiare regole che a noi possono apparire quasi banali ma che dettate nel pieno di un conflitto armato appaiono eroiche:

1) Non partecipare alla guerra in modo diretto o indiretto;
2) Non detenere armi di nessun tipo;
3) Astenersi dal dare appoggio alle parti in conflitto;
4) Non chiedere aiuto a persone armate per risolvere problemi personali o familiari;
5) Non commerciare né dare informazioni a nessuna delle parti in lotta;
6) Impegnarsi a partecipare ai lavori comunitari ed a non accettare ingiustizia e impunità.

  • Viene dato dall’inizio un grande valore all’organizzazione politico decisionale in senso democratico e alla organizzazione del lavoro in senso partecipativo: nessuna lotta nonviolenta parte e continua senza un “cambiamento di vita” sperimentabile. Questo è un insegnamento anche per il nostro movimento per la pace che rischia di sparire o di diventare irrilevante proprio per l’assenza di sperimentabili cambiamenti pratici o comunque di risultati visibili.
  • Grande importanza al senso di appartenenza, alla ritualità, al ricordo vivo dei martiri.

In conclusione:

La collettività di S. Josè di Apartadò è una normale comunità rurale nata in una zona di colonizzazione nella fascia nord-occidentale della Colombia. I suoi uomini e le sue donne possiedono le stesse virtù e limitazioni che in termini generali caratterizzano la popolazione contadina colombiana, sono perspicaci, umili, prudentemente maliziosi, ospitali e fanno parte di una cultura maschilista, che stanno iniziando ad affrontare criticamente, ma che ancora gli impone un lungo cammino.

È precisamente la “sua normalità” che ci dice con chiarezza e con forza che anche senza essere “quasi santi” come il mitico Gandhi, possiamo prendere e mantenere la decisione di una condotta nonviolenta per rispettare gli impegni assunti nell’ambito di un processo difficile ed esigente di resistenza civile, in contesti terribilmente complicati come quello del conflitto armato in Urabà. Questa è la buona nuova che ci porta la Comunità di Pace di San José de Apartadò: anche noi semplici mortali possiamo!

Nonostante tutto, in questi scenari di barbarie, la nonviolenza può aprire cammini certi e duraturi. Malgrado gli altissimi livelli di violenza che ancora soffre, la Comunità di Pace continua a rappresentare una piccola e potente luce che illumina e disturba le oscure strutture di ingiustizia.

Il futuro di questi valorosi contadini e contadine è intimamente legato alla solidarietà e alla pressione politica internazionale. Per la sua resistenza, per la lezione di vita che offre, per i martiri caduti, per il suo impegno ad oscurare il terrore con la sua speranza, questo esempio straordinario di nonviolenza in un contesto terribilmente complicato di conflitto armato, deve essere considerato patrimonio dell’ umanità.

Per chi fosse interessato ad approfondire abbiamo a disposizione ancora qualche libro “Seminando vita e dignità” a cura della Rete di Solidarietà con le Comunità di Pace Colombiane pubblicato dalla bella serie dei Quaderni Satyagraha . Potete chiederlo ai nostri indirizzi o a Luigi Mochi Sismondi: (chicomendes@alice.it.)

Consigliamo anche il bel DVD “ Creer , no querer” che si può chiedere direttamente alla Rete ( www.colombiavive.it ; reteitalianadisolidarieta@gmail.com)

Nota di servizio: da questo numero partiamo con il nuovo indirizzario chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone “veramente” interessate.

Come sapete non prevediamo un abbonamento per ricevere questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

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Luigi Mochi Sismondi, Torre Angela Roma

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Umberto Sansovini, Ostia Nuova Roma

Gianfranco Solinas, Martina Franca Taranto

Antonella Soressi, Ostia Nuova Roma

Micaela Soressi, Ostia Nuova Roma

Daniele Trecca Ostia Nuova Roma

  1. Muhammad Yunus, Un mondo senza povertà, Feltrinelli 2008, p.58
  2. ivi, p.59
  3. ivi, p.6o
  4. “Osservando per esempio il comportamento concreto delle persone a cui facevamo credito abbiamo visto che una famiglia povera traeva maggior beneficio economico se il prestito era fatto alla donna invece che all’uomo. Quando un uomo guadagna qualcosa, tende a spenderlo per sé, mentre se sono le donne a guadagnare tutta la famiglia e soprattutto i bambini ne traggono vantaggio” ivi,id., p.68.
  5. ivi, p.68
  6. ivi, p.51
  7. virgolettatura mia
  8. ivi, p.71
  9. ivi, p.19 (la recente assemblea della FAO conferma ulteriormente questo giudizio)
  10. ivi, p.20
  11. ivi, p.23
  12. ivi, p.24
  13. ivi, p.25
  14. ivi, p.26
  15. ivi, pp26-27
  16. ivi, pp.30-31
  17. ivi, p.31
  18. ivi, p.37
  19. ivi, p.39