Lettera 11 (Prima Serie)

Introduzione

Cari amici,

nella misura in cui la chiesa locale si accorge di dover vivere facendo affidamento sulla buona volontà e sulla laboriosità di coloro che la compongono, senza firmare deleghe o scaricare responsabilità su chicchessia, nasce l’esigenza di abbandonare il comodo cantuccio delle attese e delle lamentele per le attese insoddisfatte per gettarsi nella mischia e dare tutto quello di cui si è capaci, in nome della fede in Cristo Gesù.Questo era il senso del discorso che abbiamo avviato nella lettera del mese scorso.

Andiamo scoprendo, infatti, sempre meglio che la fedeltà al battesimo esige da noi che ci impastiamo fino in fondo con i fatti del tempo, con le cose della città, con il travaglio della chiesa, recuperando la nostra realtà di lievito cui non possiamo in alcun modo rinunziare, se non a prezzo di tradimento.

Tutto ciò esige l’uscita dal nostro “particulare”e la messa in atto di una reazione a catena in termini di disponibilità, nella quale le nostre pigrizie le prudenze, i calcoli, i baloccamenti non possono trovare scampo.

E tra le tante disponibilità, ci dovrà essere quella a tenere gli occhi aperti intorno a sé, a cogliere i segni della realtà in movimento, ad offrire il proprio contributo di ricerca, di studio e di analisi.

Se la nostra presenza nella vita della città nel cui seno ci diciamo chiesa, dovrà farsi presenza operante, dovrà insieme essere presenza cosciente. E poiché riteniamo che si possa arrivare ad uno stato di coscienza piena non per l’azione isolata di una qualche elite, ma solo con l’appassionato impegno di tutti, formuliamo l’augurio che “la tenda” sia sempre più strumento di tale impegno .E’ questo l’augurio più bello, ad un anno dall’avvio di questo ciclostilato.

Fraterni saluti.

gli amici de “la tenda”

L’Ateneo Lateranense Sulla Via Della Comunita’

Nel n°4 de “la tenda” presentammo la notizia della nomina di mons. Pavan a rettore della Lateranense come un evento che poteva preludere ad una maggiore apertura nella formazione del clero romano.Ad otto mesi di distanza possiamo riprendere utilmente l’argomento, e segnalare ai nostri amici alcuni fatti nuovi senz’altro promettenti.

Non che il corpo accademico abbia dato avvio ad un ripensamento della funzione dell’Ateneo nella riforma della chiesa.Sarebbe stato per lo meno prematuro aspettarselo; e tuttavia ce ne rammarichiamo.

A prendere l’iniziativa sono stati gli studenti e c’è da rallegrarsi ch’essa sia stata ben accolta da qualche docente.

Un gruppo di alunni ha cominciato nel dicembre scorso a pubblicare un ciclostilato periodico. “Momento di incontro della comunità universitaria lateranense ”Un lettore in vena di puntiglioso realismo avrebbe corretto:”per una futura comunità”. Ma noi preferiamo il titolo così com’è: un implicito ma chiaro richiamo al fatto che l’università o è comunità o viene meno al suo scopo.

A maggio ragione trattandosi di una università della Chiesa.

I cristiani di Roma conoscono bene le conseguenze di questa carenza di vita comunitaria.Essi hanno visto e vedono tuttora nelle loro parrocchie preti che convivono senza comunione di preghiera, di meditazione, di ricerca pastorale, alcuni senza avvertirne neppure l’esigenza, altri soffrendone la mancanza.

Cerchiamo ora di risalire dagli effetti alla radice del male.Chiediamoci perché l’Ateneo Lateranense non è stato fin’ora una comunità.Non è forse perché esso ha assunto come principio un equivoco? Cioè perché ha scambiato con l’uniformità l’unità vera che si realizza soltanto attraverso la pluralità? Tralasciamo per il momento la parte avuta in questo stato di cose dal seminario lateranense, sul quale finora non abbiamo notizie di un cambiamento di rotta.

E’ ovvio che su questa base non poteva costituirsi un corpo di docenti disposti a vivificare continuamente la riflessione teologica a contatto con le esperienze di fede delle varie chiese locali, a cercare di coglierne il significato e il valore, a farne stimolo di ricerca per gli studenti.

Comprendiamo così nella sua genesi la figura modello del prete romano : la sua incapacità di far proprio lo spirito del Concilio, di contribuire alla rinascita della Chiesa, alla sua liberazione in Cristo dai sostegni umani, troppo umani, a cui è abbarbicata. E diventiamo più consapevoli che lo stato attuale e futuro dell’Ateneo Lateranense riguarda direttamente noi tutti membri della Chiesa locale di Roma, e che perciò ne condividiamo la responsabilità.

Il gruppo di studenti promotore del “Momento d’incontro” propone il ciclostilato ai colleghi ed ai professori come un mezzo per cominciare a costruire insieme la comunità: conoscendosi, scambiandosi le proprie riflessioni sull’Ateneo, cercando insieme nuove impostazioni, nuovi metodi e contenuti.

L’impressione che si ricava dalla lettura dei primi tre numeri è di notevole maturità, di un’energia contestatrice che scaturisce dall’impegno in un serio lavoro critico. Si avverte che la volontà di rinnovare l’Ateneo nello spirito e nelle strutture è il coerente sviluppo della ricerca di una valida formazione al servizio della Chiesa.

Ne è conferma la rinuncia alla prova di forza, anche se questa era giustificata dal rifiuto del dialogo (dovendosi sostituire un professore, il Consiglio dei docenti si è riunito senza informare gli studenti ed ha respinto una loro proposta … perché giunta all’ultimo momento!). “L’Università sarà ecclesiale nella misura in cui sarà fondata sulla comunione cristiana fra i suoi membri”, scrive uno degli studenti; perciò “solo un dialogo spontaneo e non una imposizione di qualsiasi tipo potrà avvicinarsi a questo ideale di università”. Una lezione di maturità!

Gli studenti hanno scelto la via del lavoro paziente e tenace, della ricerca e realizzazione delle possibilità di colloquio che intanto si presentano. Alcuni professori hanno accettato l’invito a tavole rotonde (sulla partecipazione degli studenti, sui nuovi statuti). Sono stati intervistati i rettori dei Collegi sul loro modo d’intendere l’università teologica, il ruolo degli studenti, dell’autorità, il rapporto tra collegi e università, tra teologia e vita cristiana.

Il giudizio che si ricava da questi scambi d’idee è che, sia pure a vari livelli di profondità e secondo mentalità diverse, l’esigenza di mutare qualcosa è abbastanza diffusa da incoraggiare a proseguire su questa strada.

Ma vogliamo soprattutto porre l’accento sul fatto che intanto questi contatti appaiono promettenti in quanto il gruppo di studenti che li promuovono ha saputo indirizzare la propria riflessione al centro del problema.

Dalla lettura dei vari articoli di “Momento d’incontro” emerge come punto focale un insieme di vedute di fondo solidali fra loro: la teologia è la riflessione scientifica sulla fede delle comunità cristiane. Quindi essa è essenzialmente pastorale ed ecumenica.

Pastorale appunto perché ha di mira la crescita nella fede.

Ecumenica perché ovunque ci si riunisce in nome di Cristo lo Spirito è presente e si esprime.

Su questa base nessuna dottrina teologica può pretendere di identificarsi con la Parola di Dio, nessun corpo di docenti può arrogarsi la funzione del Magistero della Chiesa. Libertà di insegnamento, di ricerca, di discussione – in breve pluralismo teologico – sono condizioni vitali per una comunità di formazione scientifica al servizio del popolo di Dio.

Movendo da queste idee gli studenti di “Momento d’incontro” possono affrontare le questioni del ruolo dell’Ateneo e del metodo d’insegnamento e di studio, evitando le facili quanto elusive suggestioni di un aggiornamento di superficie, di un adattamento di mero dettaglio per “venire incontro ai giovani”.

Il ruolo dell’Ateneo è visto non solo nella preparazione di ricercatori, di specialisti, ma anche – e diremmo soprattutto – nella formazione di un clero capace di aiutare le comunità che gli saranno affidate a testimoniare il Cristo tra gli uomini d’oggi.

Del pari il problema del metodo trova la sua giusta collocazione e quindi la sua risposta adeguata: si tratta essenzialmente di realizzare una “collaborazione tra professori e studenti per una revisione costante del metodo didattico a contatto con la vita della Chiesa”. In mancanza di questa prospettiva, la limitazione delle lezioni cattedratiche, la formazione di seminari e di gruppi di studio si ridurrebbero a vani espedienti per rianimare un organismo già morto.

“A contatto con la vita reale della Chiesa”: questo bisogno così profondamente sentito dagli amici di “Momento d’incontro” ci riconduce a riflettere sul rapporto tra l’Ateneo lateranense e la Chiesa locale di Roma. Abbiamo accennato alla responsabilità di noi tutti che di questa Chiesa siamo membri. Vorremmo ora dare qualche suggerimento per renderla operante. Rivolgiamo un invito alle nostre parrocchie perché offrano a qualche studente della Lateranense la possibilità di un’esperienza pastorale durante le ferie estive. Proponiamo inoltre ai vari gruppi cristiani della nostra città (laureati cattolici, équipes Notre-Dame, gruppi spontanei,ecc.) di prendere contatto con gli alunni dell’Ateneo, per uno scambio di esperienze di idee di cui non occorre dire quanto possa essere fruttuoso per tutti. Quanto al gruppo de “la tenda”, esso mette a disposizione la lettera mensile a quanti tra gli studenti vorranno recare i loro contributi di ricerca nel campo così poco esplorato della vita pastorale nella Chiesa di Roma (piccole ricerche statistiche, studi sulle pubblicazioni diocesane, sulla struttura degli uffici del Vicariato, sui grandi fenomeni dell’assistenza religiosa negli ospedali, nelle carceri, ecc.).

(“Momento d’incontro della comunità universitaria lateranense”, piazza S. Giovanni in Laterano ,4 – 00184 Roma).

Il Sottosviluppo Urbano Di Roma (2)

Prima di continuare con il nostro articolo sui problemi del sottosviluppo urbano a Roma, crediamo opportuno richiamare alcune classificazioni alle quali faremo riferimento piuttosto frequentemente.

BORGHETTO : è un agglomerato di baracche di solito abbastanza popoloso e comunque non inferiore alle cinquanta famiglie. I più grandi borghetti sono : borghetto Prenestino (800 famiglie circa), borghetto Latino (350 famiglie circa), Acquedotto Felice (suddiviso nella sua lunghezza in varie parti, per un totale di circa 1700 famiglie), Prato Rotondo (270 famiglie circa), borghetto Alessandrino (150 famiglie circa), ecc. E’ importante ricordare che le baracche non si trovano solo nei borghetti, ma esistono anche in nuclei sparsi, o come naturali appendici delle borgate, o addirittura isolate nella campagna romana (in questa situazione si trovano dal 10 al 20% dei baraccati di Roma).

BORGATA : è un agglomerato di “casette” di solito realizzato durante il regime fascista (è in questo periodo che prende piede l’uso del termine borgata). Gli insediamenti sono qualitativamente diversissimi: vanno da quelli accettabili del Quarticciolo, Trullo, Pietralata, S. Basilio (che pure rappresentano una delle più squallide concezioni di che cosa un insediamento popolare deve essere, a causa della sua natura segregativi, della mancanza di attrezzature sociali, della scarsa creatività del disegno architettonico), a quelle inumane delle borgate “rapidissime” (Prenestina, Gordiani, Tiburtino III°, Acilia, Primavalle,ecc.).

Queste ultime, mancando di tutti i servizi primari (acqua, fognature, elettricità, strade, ecc.) ed essendo state realizzate con uno strano impasto di calce, trucioli di legno e pomice, potevano essere considerate delle vere e proprie baracche.

BORGATE (abusive): sono quegli insediamenti, o case sparse realizzate su terreni non edificabili sui quali i proprietari precedenti avevano svolto opera di lottizzazione abusiva (es. Fidene, La Storta, Ottavia, Prima Porta, Labaro, Tor Cervara, La Rustica, Parrocchietta, La Pisana, Tor Sapienza, Torre Spaccata, Torre Maura, ecc.). Pur se la qualità degli alloggi (anche case fino a tre piani) è generalmente migliore che nei borghetti, persistono tutte le altre gravi carenze urbanistiche e sociali tipiche dei borghetti.

Nell’articolo precedente abbiamo cercato di dare un’idea del grave deterioramento dell’ambiente urbano di Roma, causato dalla struttura oligopolistica (tecnicamente definita di oligopolio collusivo) della proprietà fondiaria e dal principio speculativo con cui sono stati realizzati i nuovi insediamenti.

Ma i problemi e le difficoltà di cui abbiamo parlato sono ben poca cosa se vengono confrontati con le condizioni di vita degli abitanti delle borgate e dei borghetti, cioè di circa un quarto degli abitanti di Roma. (1)

Per poter meglio comprendere la portata del problema dei “baraccati” ci sembra importante percorrere alcune delle tappe di Roma capitale.

Il problema dei baraccati è esploso, per la prima volta, pochi mesi dopo la presa di Porta Pia. La massiccia immigrazione borghese e proletaria dei primi anni dopo l’unificazione fece crollare il precario equilibrio della Roma dei papi, e costrinse i romani più poveri ad abbandonare le proprie case per renderle disponibili ai burocrati piemontesi e toscani.(2) Precise descrizioni della situazione dell’epoca ci sono fornite da U. Pesci: “Per avere un’idea della sproporzione fra le richieste ed il numero degli alloggi disponibili alla metà del 1871 basterà dire che, secondo i calcoli del Governo, per gli impiegati da trasferirsi a Roma con la capitale occorrevano 40.180 stanze ed una notificazione del Municipio di Roma dette per risultato di trovarne 500; ed un anno e mezzo dopo la data ufficiale del trasferimento, vale a dire alla fine del 1872, il Municipio di Roma si trovava ancora nella necessità di intimare, per ragioni di pubblica utilità, la RIDUZIONE DI MOLTI FIENILI A CASE ABITABILI!” (3).

I fienili però erano ancora alloggi invidiabili per la maggior parte della classe operaia romana. Una percentuale notevole dei nuovi venuti per bassi lavori era costretta a rifugiarsi sotto i portici del Campidoglio, delle grandi basiliche e dei palazzi dell’aristocrazia. L’azione pubblica si limitava all’affissione di volta in volta di quelle località in cui era permesso pernottare all’aperto. (4)

Non tutti però accettarono l’idea di dormire sotto i portici; alcuni, più intraprendenti, si costruirono degli alloggi di fortuna: nascono così le prime baracche. Nei primi anni questi alloggi di emergenza nascono accanto agli insediamenti normali: tutti i rioni hanno una percentuale più o meno elevata di baracche. Ben presto però l’esperienza insegna ai ‘baraccati’ che è conveniente costruire i propri alloggi dove sicuramente non verranno abbattuti: le mura aureliane, i ruderi romani, il fiume cominciano a raccogliere i primi nuclei numerosi di alloggi impropri. (5)

Altrettanto disastrose erano le condizioni operaie nelle case normali. Innanzitutto queste registravano un indice di affollamento elevatissimo; poi, il costo dell’affitto di un solo vano abitabile, di solito non superiore ai 30 mq, incideva per il 25-30% del salario. Data la numerosità delle famiglie operaie, ciò significava una decurtazione del 50% del salario per poter vivere in cinque o sei persone a vano. Famose sono le descrizioni che ci lascerà D. Orano della condizione operaia: “Nelle camere vuote vengono collocati quattro, sei, sino dieci letti o giacigli, sui quali si sdraiano nella notte manovali, terrazzieri, dai corpi estenuati dal lavoro, spesso inebetiti dal vino …”

  1. Abitano nei borghetti circa 50.000 persone, nelle borgate ufficiali circa 200.000 e nelle borgate abusive circa 600.000.
  2. Carmela D’ Apice, Roma: La città contro l’uomo, Cento anni di baracche, pag.19 e segg.
  3. U. Pesci, I primi anni di Roma capitale, pag.51
  4. I. Insolera, Roma moderna
  5. Dati precisi sull’estensione del fenomeno dei baraccati non se ne hanno fino al 1911, ma dalle descrizioni dei vari studiosi è possibile ricavare indicazioni chiare sulla loro localizzazione ed estensione (vedi: Cento anni di baracche, op. cit.).

Non pochi vivono nelle grotte. Sempre Orano ci tramanda questa immagine: “Sfrattate dalle loro abitazioni alcune famiglie occuparono le mura cittadine fra il Camposanto dei protestanti e il mattatoio, altre si stabilirono nelle grotte. Nella grotta n. 49, verso il Campo Boario trovasi una famiglia in istato quasi primitivo, inebetita dagli stenti e dalle condizioni di vita che conduce, senza che alcuno se ne sia mai interessato”. (6)

Alla base di tutti questi problemi c’è (come abbiamo già visto per i problemi attuali) la situazione di monopolio dei proprietari fondiari. Al momento della emanazione della legge Giolitti (1907) che intendeva appunto combattere i monopoli fondiari la situazione era pressappoco la seguente: sei grandi proprietari (Banca d’Italia, Istituto Romano Beni Stabili, Società italiana imprese fondiarie, Società Gianicolo, Eredi Weil Weis, Società Generale Immobiliare). Controllano il 55% dei terreni edificabili e cioè 492.000 mq su un totale di 929.000 mq. (7)

Ma se si prescinde dagli stenti e le malattie, che pure dovevano rendere la vita infernale, la situazione dei baraccati poteva risultare “socialmente” accettabile, in quanto le baracche erano integrate nel resto della città.

Con l’avvento del fascismo, soprattutto a causa della mania di dare a Roma un aspetto “imperiale”, le baracche furono cacciate in aperta campagna. Così, accanto ai gravi problemi esistenti, si aggiunse quello della segregazione.

“Tra cinque anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo; vasta, ordinata, potente come fu ai tempi del primo impero di Augusto. Voi continuerete a liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora lo intralcia. Farete dei varchi intorno al Teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon. Voi libererete anche dalle costruzioni parassitarie e profane i templi maestosi della Roma cristiana. I monumenti millenari della nostra storia debbono giganteggiare nella necessaria solitudine”. (8)

Con questa dichiarazione di guerra contro l’urbanistica dei precedenti sedici secoli ebbe inizio la politica degli sventramenti, che, come vedremo, accrebbe sensibilmente il problema degli alloggi precari a Roma.

Alla base dei grandi sventramenti c’era il desiderio di imprimere alla Roma fascista un’impronta “imperiale”. Tutte le altre manifestazioni di vita dovevano essere brutalmente cancellate per lasciare “giganteggiare” i ruderi romani. Talvolta le demolizioni venivano politicamente giustificate con un desiderio di “risanamento urbano”. Ma anche a prescindere da giudizi di valore su una simile politica urbanistica (il cui contenuto necrofilo è ben evidente), possiamo, ad un esame storico, facilmente riconoscere il carattere devastatore dell’azione del “piccone fascista”.

(6) D. Orano, Come vive il popolo a Roma – pag.203

(7) A. Caracciolo, Roma capitale – pag. 264

(8) Discorso di Mussolini (31/12/1925) per l’insediamento di F. Cremonesi, I° Governatore di

Roma – Capitolium gennaio 1926.

Qualche esempio ci permetterà di comprendere meglio quanto affermato. La motivazione relativa alla evidenziazione dei ruderi romani cade miseramente se si valuta la portata di alcuni interventi. Così se i Fori Imperiali furono “liberati” dalle costruzioni “parassitarie”, essi non furono offerti alla vista se non che in minima parte. Così, ad esempio, il Foro di Traiano copriva ben 36.000 mq: di questi 35.000 furono scavati, per poi essere nuovamente ricoperti per il 97%, e cioè per 33.500 mq. Il Foro di Augusto si estendeva per 11.000 mq che furono tutti scavati. Ma 6.000 mq furono ricoperti (e cioè il 54%). Complessivamente i Fori imperiali coprivano un’area di più di 80.000 mq: 76.000 ne furono scavati e, di questi, 64.000 furono ricoperti, lasciando così scoperto soltanto il 16% dei fori stessi. (9)

Similmente gli scavi del Foro Boario e del Foro Olitorio sono stati nascosti dai nuovi uffici Comunali costruiti durante il fascismo. La tomba di Augusto, sulla quale era stato ricavato un Auditorium, fu “liberata” per poi essere circondata da mastodontici edifici di travertino.

Fortunatamente il piano Regolatore del 1931 non fu mai integralmente attuato. Esso infatti prevedeva demolizioni praticamente in tutto il centro storico, che avrebbero completamente trasformato il volto della città.

Ma anche l’argomentazione del “risanamento urbano” non regge ad un attento esame. Infatti le abitazioni che sono state demolite, e delle quali si posseggono fotografie, risultano del tutto simili alle altre abitazioni del centro storico (e quindi, tutt’al più, avrebbero avuto bisogno di un restauro). Le demolizioni previste dal piano del 1931 e non attuate riguardano edifici che, a quaranta anni di distanza, svolgono egregiamente funzioni di abitazione o addirittura direzionali. Nel concetto di risanamento si deve anche introdurre il problema del lavoro. Ora, quasi tutti i cittadini, le cui case erano state demolite, lavoravano come artigiani nelle immediate vicinanze della loro abitazione e, quindi, hanno perso contemporaneamente casa e lavoro (con gravi ripercussioni sull’intera economia cittadina).

E, come se non bastasse, gli “sfollati” erano trasferiti in blocco nei lager delle borgate fasciste, lontano dal loro ambiente urbano naturale, dal loro lavoro. Ad esempio, gli sfollati del Foro di Traiano furono insediati ( in parte ) nella borgata Prenestina , a circa 8 Km dal centro della città (in aperta campagna), in baracche “rapidissime”, con tutti i servizi in comune, senza luce, senza strade, senza scuole.

Appare quindi evidente che il vero “risanamento” voluto dal fascismo era un “risanamento (?)” politico. La classe operaia doveva essere scacciata dal centro di Roma per far posto ai borghesi e ai nobili (è significativo il fatto che si succedono nella carica di Governatore della città, per tutto il fascismo, membri dell’alta aristocrazia romana). E’ così che comincia la campagna di stampa contro gli abitanti dei rioni da demolire, che vengono definiti “ un agglomerato di case e di gentucola che non sai se ti trovi a Roma o in un accampamento di zingari” (10). Così che nella stampa ufficiale le casette “rapidissime” vennero presentate come “un’altra nuova, grande e poderosa realizzazione del regime”. (11)

Durante il quindicennio 1924 – 1939 all’incirca 50.000 persone dovettero subire le conseguenze gravissime dell’assurda politica degli sventramenti. Una parte andò ad ingrossare le fila dei baraccati, un’altra entrò nel mondo delle baracche –lager statali e municipali, e un’ultima più fortunata (?) da potersi trasferire in case decenti o nelle poche borgate abitabili (12). Se a questi aggiungiamo gli abitanti dei ricoveri ed i baraccati veri e propri (stimati ufficialmente intorno ai 20.000) vediamo che la Roma imperiale di Mussolini assomigliava ad un immenso cantiere per creare slums. (continua)

(9) I. Insolera, Roma moderna – pag.136 e seg.

(10) Discorso del Governatore di Roma – Capitolium 1930 pag.420

(11) De Simone, Le case popolarissime – Roma 1937 Tip. Aternum

(12) D’ Apice , La città contro l’uomo – pagg.74/83

Di Politica E Di Una Cosa Che Forse Non C’Entra

Questa è la linea di condotta che la “autorità diocesana” ha seguito per le elezioni regionali del 7 giugno 1970: appoggio esplicito al partito della Democrazia Cristiana; non intervento nel gioco delle preferenze sui singoli candidati all’interno della lista suddetta.

Dunque abbiamo avuto, al 22° anno dell’era democristiana, un intervento della “autorità diocesana” nel campo e nel merito di scelte civili e politiche, pur essendo intervenuto nientemeno che un Concilio ecumenico a dire : “E’ compito dei Pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare gli aiuti morali e spirituali affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo. Ai laici tocca assumere l’instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio e, in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto”. (Decreto sull’Apostolato dei laici, 7). Come mai?

Nella storia dell’intervento ventennale dei vescovi sulla coscienza politica in tempo di elezioni (si badi, solo in tempo di elezioni!) con tutte le crisi di coscienza e le identificazioni tra chiesa e potere politico che sappiamo, ci sono stati alcuni aggiustamenti di tiro che mette conto ricordare

  1. L’intervento fu generale, pubblico, massiccio tra il 1946 e il 1950 con le campagne

elettorali giocate sul dilemma “votate Democrazia Cristiana – o civiltà cristiana – o materialismo ateo”.

  1. Dal 1950 al 1965 l’appoggio alla DC resta altrettanto chiaro anche se l’invito ai fedeli

suona solo: “ Votate per un partito democratico e cristiano”. La formulazione diventa (si fa per dire) più sfumata. Così da un lato non si toglie l’appoggio al partito e se ne può chiedere riconoscenza, dall’altro è pronta la squisita distinzione per non apparire coinvolti in responsabilità via via più gravi o per respingere l’accusa di sconfinare in campo di responsabilità laicali, se mai qualche spirito delicato avesse cercato il pelo nell’uovo. Se ci riferiamo alla città di Roma, ed alle elezioni locali-comunali, l’atteggiamento del vescovo nel periodo 50/65, si configura così: appoggio alla lista in cambio della introduzione tra i candidati di alcuni uomini graditi alla diocesi e collegati ad organizzazioni ufficiali (controllate: Azione Cattolica, Comitato Civico, Acli) sui quali uomini i parroci potessero concentrare le preferenze dei “fedeli”. Quasi mai il risultato premiò le attese ed i candidati ufficiali giungendo rare volte alla elezione ne approfittavano per uscire di tutela. Ma appariva soprattutto che la causa degli insuccessi era la debolezza crescente delle organizzazioni di appoggio (Azione Cattolica, ecc.), la disattenzione dei parroci rivolti invece ad altri candidati per interessi di quartiere o per favori già ricevuti, nonché la forza emergente dei candidati di partito o legati a categorie potenti (commercianti, costruttori, ecc.). Il candidato messo in lista solo per la richiesta del vescovo aveva sempre meno armi di fronte a candidati uscenti sempre più “piazzati” o dotati di notevoli possibilità finanziarie, o già clientelati autonomamente in settori ecclesiastici. L’atteggiamento indicato corrisponde al periodo dei cardinali Micara – Traglia (1950 – 1964).

  1. Ma dalle elezioni del 1968, e così per il 7 giugno 1970, l’atteggiamento ha preso il suddetto aggiustamento: “Votare uniti, appoggiare il partito, disinteressarsi delle preferenze”.

Per spiegarci il senso profondo di quest’ultima modifica di atteggiamento cercheremo distintamente: 1) le conseguenze oggettive della nuova tattica 2) Quali posizioni interiori possono stare al fondo del nuovo corso.

1) Quali conseguenze oggettive ha la posizione ufficiale che la diocesi prende nella campagna elettorale.

Grande o piccolo l’effetto della posizione ufficiale della diocesi, esso è nel senso di evitare ogni ricambio. Di ricambio di partiti non se ne è parlato neppure: l’invito a votare DC era praticamente esplicito. Di ricambio di uomini neppure, perché il disimpegno dalla lotta per le preferenze favorisce chi è già al potere e chi ha già una clientela. Costoro possono contare (forse) su qualche voto di lista in più portato eventualmente da qualche predica da crociato, senza temere il disturbo di concentrazioni di preferenze su nomi concorrenti operate da parrocchie o associazioni cattoliche. Meglio di così?

La posizione scelta dal vescovo appare quindi oggettivamente quella del maggior appoggio possibile non solo al partito della DC, ma anche agli uomini che attualmente lo controllano. Sarebbe difficile trovare un comportamento oggettivamente più favorevole alle persone già provviste di clientela e posizioni di potere. Dalla scelta operata la diocesi appare soddisfatta del partito, degli uomini e, ovviamente, della gestione fin ora esercitata.

Ma qualcuno può dire che le cose stanno altrimenti. Può rimproverarci di aver evidenziato l’effetto negativo di una scelta (il disimpegno dai nomi) che potrebbe provenire da vero rispetto almeno di una libertà riguardo ai candidati, se non addirittura da un disegno nascosto di graduale, totale disimpegno. Certo, dobbiamo mettere nel conto delle cose possibili che questo possa essere il movente dell’azione del vescovo. Può darsi davvero che il vescovo cerchi un disimpegno progressivo dal partito e che noi, subdoli, abbiamo attribuito a lui l’intenzione di un risultato che è purtroppo la conseguenza non voluta di un disimpegno forzatamente ancora parziale.

Noi abbiamo però scritto di conseguenza oggettiva del comportamento del vescovo. Essa è tanto evidente che non ci si può chiedere se il vescovo l’abbia prevista o no senza mancare di riguardo alla sua perspicacia.

Altro invece è chiedersi se queste conseguenze, certe e previste, siano volute o tollerate: difficile giudicare, si tratta di indagare nella volontà interna delle persone. Non potremo che cercare indizi, con la maggior buona disposizione possibile.

2) Quale posizione interiore stia alla base della scelta operata dall’autorità diocesana. Disimpegno progressivo o impegno più funzionale? Qualche indizio.

Prendiamo come punto di riferimento la posizione precedente quella attuale: fino al 1965 nella lotta per le preferenze la diocesi favorisce i candidati inseriti in lista su sua indicazione. Questa politica viene abbandonata. Abbandonata o sostituita? La diocesi rinuncia ad avere dei suoi portaparola. Rinuncia anche a “trattare” gli uomini che governeranno o governano? Questo sarebbe segno di disimpegno! Ma potrebbe darsi, pura ipotesi per il momento, che la diocesi continui a desiderare uomini sui quali contare, ed in questo caso, visto che è sterile fondare speranze su candidati propri da imporre nella lotta elettorale, trovi più opportuno individuare in anticipo i vincenti per puntare su di loro, cominciando con l’evitare il disturbo del contrapporre ad essi altri contendenti. Rinunciare cioè ad una politica di base elettorale volta alla elezione di uomini propri e tentare operazioni di collegamento di vertice.

Ci troviamo dinnanzi ad un difficile giudizio sulla profonda condizione interiore dei nostri vescovi. Se hanno rinunciato a “trattare” gli uomini politici siamo sulla via della liberazione. Se hanno solo trasferito le loro attenzioni da candidati incerti ad eletti sicuri, allora c’è solo un trasformismo accorto. Quale delle due?

Ebbene, più come una preoccupazione, come una spiacevole coincidenza, noi accostiamo alla domanda che ci siamo posti più su una interpretazione di alcune azioni del Vescovo che, se vera, ci darebbe una triste chiave di lettura anche a riguardo dell’atteggiamento preso in questioni politiche.

Il Cardinale Dell’ Acqua si trovò, al suo arrivo in diocesi (1968), dinanzi alla vita, diciamo così, normale della sua Chiesa, e dinanzi al complesso mondo politico, economico, industriale, militare, commerciale, edilizio, nobiliare della capitale. Troppo per un uomo solo! La soluzione fu presto trovata. Il Cardinale proveniva dalla diplomazia internazionale e nazionale, abituato e già introdotto in rapporti di alto livello, naturalmente portato ad apprezzarne il valore. Delegato dal Papa, Vescovo di Roma troppo impegnato con la Chiesa universale, delegò a sua volta Mons. Poletti, affidandogli espressamente (come notavamo, sorpresi, in “la tenda” n.2, pag.5) la …..normale pastorale della diocesi, fino al coordinamento, non ancora ben chiaro nei suoi modi, del consiglio episcopale e del consiglio presbiterale; il Cardinale manteneva invece per sé i rapporti con la “haute” cittadina.

Questo rilievo è facilmente controllabile se si dà uno sguardo sommario alla rubrica quotidiana dell’Osservatore Romano, intitolata pienamente: “Attività pastorale del Cardinal Vicario”. Si vedrà quanta parte di questa attività sia dedicata ad incontri d’alto livello con scambi di onorificenze e complimenti. Si vedrà in più come il rapporto con il popolo cristiano venga spesso dedicato ad illustrare le attese che la Patria e la Chiesa hanno nei riguardi di cittadini bravi o comunque costruttivamente contestatori. A suggello, è stato potenziato nella struttura del Vicariato l’ufficio della “Segreteria Pastorale”, che fa capo appunto al vicegerente Poletti (in aggiunta al normale ufficio Pastorale della diocesi).

Se si accostano questi fatti al problema della ricerca di significato delle scelte elettorali della diocesi, ne viene un disegno nel quale le due realtà sembrano illuminarsi a vicenda.

L’attenzione del Vescovo, per quanto riguarda il mondo politico, sembra rivolta piuttosto a curare gli uomini di potere che interessata o solo disposta ad una loro sostituzione.

A nostro modesto parere non è cambiato molto se si è scelta solo una tattica che si ritiene più produttiva.

Ma qualcuno può dirci ancora: il Vescovo è realista, questi sono i capi che il mercato fornisce, questi i legami attuali tra diocesi e potere politico, il Vescovo vuole uscire dall’ “impasse” attuale, ma la via passa per il contatto continuo, se sapeste quante difficoltà ecc. …

Non ci meravigliamo della scelta di metodo. Noi crediamo in un Libro in cui si lodano ugualmente la prudenza di Abramo che, per salvare la sua pelle, cede la moglie al Faraone dicendo che è “soltanto sua sorella” e l’imprudenza di Sansone che, per uccidere il nemico, si tira due colonne del tempio sulla testa. Siamo pronti quindi a tutte le astuzie del Vescovo. Anche il Signore andava a mangiare con i peccatori; e aspettiamo, senza poter celare un certo piacere, il giorno in cui, nel bel mezzo del pranzo, il Vescovo riprenderà a voce alta i discorsi che Gesù faceva sulla soglia della casa di Zaccheo.

Ma, intanto, mentre il vescovo è in posizione, diciamo così, di preparazione, dobbiamo riflettere sulle sue posizioni: sono, per esplicita ammissione di chi ci mette in quest’ordine di considerazioni, atteggiamenti intermedi, di comodo. Sono ciò che è necessario dire, non ciò che si vorrebbe dire.

Noi accettiamo la interpretazione di queste parole come se dette per non scontentare l’alto interlocutore piuttosto che per convincere veramente noi! Sì, d’accordo, il Vescovo ci parlerebbe diversamente in tema di libertà politica (e altro) se non avesse timore di indebolire la sua pastorale di conversione dei potenti (una vocazione come l’altra) o timore di diminuire i benefici che così ottiene per la Chiesa. E’ come un ostaggio costretto a scrivere lettere non sincere per poter sopravvivere. Ma se le cose stanno così, ebbene, continui a scrivere, ne scriva di più ed anche più esplicite.Senza timore che noi lo ascoltiamo.Noi sappiamo, è il postulato di partenza, che parla per coprirsi dinanzi a potenti che abbandonati, lo trascinerebbero, o ci trascinerebbero, in violente crisi di struttura che bisogna evitare alla Chiesa. Continui, noi lo comprendiamo.

Lui faccia inviti al voto democristiano, appaia sul balcone del Campidoglio del Natale di Roma, illuda gli uomini di potere. Faccia con mammona di iniquità il suo gioco.Noi facciamo il nostro, non dando peso ai suoi richiami, sicuri di interpretare il suo pensiero più intimo.

Così, marciando divisi e colpendo uniti, saremo, una volta tanto, più furbi dei figli delle tenebre.

L’accostamento tra prassi pastorale di “èlite”della dirigenza diocesana e atteggiamento elettorale può sembrare illegittimo.A noi appare piuttosto una ipotesi di lavoro da verificare, e già abbastanza plausibile.Al di là delle consequenzialità di tutto il ragionamento restano alcuni fatti di grave mole: il senso oggettivo della scelta elettorale favorevole allo statu quo, la suddelegazione del compito pastorale al Vicegerente, una continua acritica presenza affiancatrice alle forze che posseggono la città.

Tornando al problema elettorale, qualche precisazione.La libertà che, a buon diritto, ci siamo presi in materia di scelte politiche (libertà dalle indicazioni contingenti, non dal Vangelo, o dalla

Chiesa, per es. dal Concilio o dal vero magistero cristiano del Vescovo) la specifichiamo con alcuni pensieri pratici.

Primo, aiutarci a comprendere i significati reali delle azioni del Vescovo non vuol dire spingere gli amici a votare nel futuro contro la DC o lodarli se così han fatto.Solo è invito a trovare, per la scelta, giustificazioni migliori che un intervento episcopale.

Secondo: anche il clero ha spesso saputo opporsi.Spesso si è agito semplicemente col non dar corso, tacere, deviare, prender tempo, cestinare.Il clero di Roma, nel bene e nel male, è maestro di resistenza. Risposte esplicite, magari nero su bianco, espongono inutilmente, offrono bersaglio, danno occasione a repliche e polemiche.Non serve.

Terzo, più tristemente.Il frutto scarso che i potenti ricavano in sede elettorale dalla pressione che esercitano sulla Chiesa con spese non indifferenti non farà loro ripensare all’opportunità di spender tanto per amici così poco produttivi? I potenti sanno (l’Avvenire d’Italia insegna) che, se non si può avere un amico è ancor qualcosa pagare per avere una mummia nel luogo dove potrebbe essere un nemico.Ciò vuol dire che non potremo liberare il Vescovo neppure se sarà completamente improduttivo per l’avversario.La liberazione comincerà solo quando il Vescovo avrà voglia di lottare.Magari con l’imprudenza di Sansone, ritogliendo la Diocesi dalle mani del Faraone.