Lettera 102 (Prima Serie)

I Problemi Delle Macrodiocesi: Tra Assemblearismo, Organismi Di Rappresentanza Ed Economia Sacramentale

1. – Il quadro teologico ecclesiale

Le realtà della chiesa locale di Roma portano il segno delle dimensioni eccessivamente grandi della diocesi. L’ampiezza del territorio diocesano e il numero dei componenti la chiesa locale romana ci hanno spesso attirati per la loro intrinseca capacità di arrestare il flusso della comunione ecclesiale. Abbiamo più volte scritto che a causa delle dimensioni eccessivamente grandi della diocesi come è, i suoi problemi sono per ciò stesso irrisolvibili e che nessuna buona volontà può scavalcare l’esigenza primaria di ridurre le dimensioni locali ed umane della diocesi di Roma. Sicché, come i nostri amici sanno, ci siamo fatti più volte portatori di una «delenda Carthago» pregiudiziale.

Una cosi radicale posizione, radicale anzitutto nel senso che pone il problema della radice di tutti gli altri problemi, non ci ha impedito però, pur con la noia di chi mette pezze al vestito logoro compromettendone ancor più la tenuta, non ci ha impedito di dedicare attenzione a singoli problemi posti più a valle della questione capitale.

Oggi ne vogliamo proporre uno che tra l’altro discende proprio dalla maniera con la quale si è pensato di poter mantenere fluida la circolazione della comunione nel corpo bolso della chiesa di Roma.

Sarà anzitutto opportuno richiamare fuori quadro le coordinate teologiche essenziali tra le quali ci orientiamo in materia di comunione-comunicazione ecclesiale.

Noi diamo per acquisito che primo livello di comunione ecclesiale è la riunione liturgica domenicale guidata dal presbitero o prete (a prescindere dallo stato di fatto in cui versano attualmente le Messe domenicali), secondo strumento di comunicazione è la concelebrazione tra i presbiteri col Vescovo. In terzo luogo compie una più alta e talvolta definitiva comunicazione la riunione conciliare dei vescovi tra loro. Sia lecito solo richiamare l’attenzione sulla non-ritualità delle celebrazioni nel caso esse vogliano servire allo scopo enunciato, essere cioè momenti comunionali degni del Vangelo. Il massimo della cura va posto da chi di dovere affinché si conservi la possibilità concreta del dialogo tra persone. Qualunque ostacolo al dialogo (ritualismo dell’incontro, ordine del giorno comandato d’ufficio, pletora dei partecipanti…) è un attentato mortale alla comunicazione ecclesiale, cioè al concetto e alla realtà stessa di Chiesa.

Stabilito un primo riferimento, il quadro teologico ecclesiale, delimitiamo la materia alla quale si riferirà la presente nota. Esamineremo soltanto il momento della comunicazione tra le comunità. eucaristiche di base e cioè l’incontro dei presbiteri fra loro e con il Vescovo. È la seconda delle tre- comunioni nominate poco sopra.

Circa il modo di procedere, sia detto che per concretezza prenderemo le mosse dalle forme nelle quali concretamente tale incontro viene realizzato oggi nella nostra chiesa locale romana, lasciando emergere via via questioni di fondo e valutazioni.

2. – Forme attuali di comunione dei presbiteri tra loro e con i1 Vescovo.

Uno sguardo panoramico alla comunione dei presbiteri fra loro e con il vescovo, e valga come sommario, mostra che essa è stata realizzata per mezzo di tre incontri assembleari distinti e concentrici. Iniziando dagli incontri di minor mole, c’è anzitutto l’incontro del clero di cinque-dieci parrocchie limitrofe. Ne risultano a Roma 35 gruppi di parrocchie, detti «prefetture», sotto la moderazione di 35 prefetti. C’è poi l’assemblea del clero di cinque-otto prefetture limitrofe. Ne risultano cinque cosiddetti «settori», sotto la supervisione di cinque vescovi ausiliari. C’è infine l’assemblea di tutto il clero della diocesi, sotto la direzione del Vescovo Cardinale vicario del Papa, il quale cardinale ne delega a sua volta la convocazione e la moderazione ad un altro Vescovo, detto Vicegerente.

Ai tre incontri di tipo assembleare ne vanno aggiunti altri due che seguono il modello rappresentativo. Essi sono: l’incontro dei 35 prefetti o consiglio dei prefetti e l’incontro di un cosiddetto consiglio presbiterale, di circa 80 membri.

Entrambi i collegi sono eletti dal clero e confermati dal Vescovo Cardinale vicario per tre anni.Ad eccezione dell’assemblea generale del clero che ha cadenza semestrale e del consiglio presbiterale che è bimestrale, gli altri incontri e cioè l’assemblea di prefettura, di settore, e il consiglio dei prefetti hanno cadenza mensile, escluso il periodo estivo.

È nei propositi dichiarati della diocesi che i due momenti rappresentativi siano funzionali ad una maggiore capacità comunicativa dei tre momenti assembleari. È implicito in questa asserzione che questi ultimi sono in condizione di averne bisogno.

E che l’aggiunta di strumenti collaterali ai canali sacramentali sia il modo migliore per aiutarne il funzionamento è cosa della quale si può ben dubitare a priori.

Ma procediamo come s’è detto, per approcci concreti successivi.

3. – Il momento assembleare generale.

Attira subito per la sua completezza strutturale il momento assembleare generale, l’incontro del clero di tutta la diocesi con tutti i vescovi variamente graduati (escluso però il Papa, vescovo titolare della diocesi di Roma).

Considerando tale incontro come un fatto assembleare dialogico esso ha una data di nascita assai recente. Risale al convegno del clero di Roma indetto dal Cardinale Angelo Dell’Acqua.

Egli nel 1970 convocò il clero romano perché si venisse a capo del sacramento del matrimonio e della sua celebrazione a Roma, questione spinosa allora non meno che ora. La «prima assemblea del clero romano» come venne chiamata, a dire implicitamente che di quel tipo non ce ne erano state prima e che altre ne sarebbero seguite, mostrò vivacità notevolissima e si parlò apertamente e senza peli sulla lingua di simonia e di sacrilegi, si chiamarono in causa i rettori di chiese bottegai e sponsorizzati con altri commercianti, vennero chiarite le cointeressenze della diocesi stessa (che, sia detto per inciso, in sede di successiva ristrutturazione vennero triplicate passando da £ 1.500 a £ 4.000 per matrimonio).

Il primo esperimento assembleare ebbe seguito negli anni successivi, ma con margini di dialogo progressivamente sempre più ristretti. A farla breve, l’assemblea del clero del 1979 non ha consentito interventi in aula, ed ha rimandato alle assemblee successive di minor ampiezza (settori e prefetture) l’approfondimento delle relazioni lette in pubblico. Sicché l’incontro è apparso come una raccolta (ridotta) di preti (per lo più anziani) gratificati di qualche ora di istruzioni teologico-pastorali, poi ripubblicate integralmente nella Rivista diocesana, a riprova che andarle ad ascoltare di persona era stata una oziosità convenzionale.

A noi sembra, e così entriamo nelle valutazioni, che il declassamento dell’incontro da dialogo comunionale libero a comunicazione non ha giustificazioni ecclesiali, cioè derivanti dalla struttura legittima del rapporto vescovo-preti. Naturalmente avrà un suo spazio legittimo anche la comunicazione di scelte episcopali non discutibili, ma essa richiede allora che venga presentata col suo vero nome e non come fatto di «assemblea».

Sicché l’assemblea generale del clero romano, che aveva inizialmente mostrato la vigoria di uno strumento capace di rimbombi imprevedibili ed ecclesialmente solido (si tratta dell’unica forma sacramentale di comunicazione tra le comunità di base), è stata mummificata. Aveva una recente data di nascita. Ha già una data di morte, né la sua eventuale riproposizione in termini uguali o simili potrà modificarne lo stato anagrafico.

L’involuzione dell’assemblea generale del clero ha creato malumore non represso, a quel che ci è stato detto, tra i suoi membri. Ai preti è stato allora spiegato che le dimensioni stesse dell’assemblea avrebbero reso il dialogo o confuso o incompleto o tribunizio e in ogni caso difficile. Naturalmente siamo d’accordo. Ma non certo nel senso che quindi si debbono creare circoli minori all’interno di un’assemblea che viene mantenuta, perché viene mantenuta, passiva e muta. Noi pensiamo che se l’eccessiva quantità di membri, che è causa della ingovernabilità dell’assemblea, non vuole diventare il comodo pretesto per la sua stessa ingovernabilità, deve allora diventare il motivo immediato perché il corpo della diocesi si suddivida, dando origine ad altri corpi dello stesso titolo. Ma come facevamo rilevare altre volte, la prima idea del direttore generale di un grande ente giunto ai limiti dell’ingovernabilità sarà sempre quella di costituirsi due vicedirettori generali, per restare sempre lui l’istanza decisiva. Il pensiero di dover cedere metà del suo ente ad un altro pari direttore generale (che diventerà indipendente da lui), gli farà piuttosto l’effetto di un incubo notturno.

Concludendo intorno all’incontro generale del clero, osserviamo dunque che l’unica assemblea di ranghi completi, cioè con tutti i preti e tutti i vescovi (assente solo il titolare, il Papa) è praticamente inservibile ai fini della comunicazione delle comunità di base o parrocchiali fra loro e con il Vescovo.

Rivolgiamo ora l’attenzione alle altre due riunioni assembleari del presbiterio, settore e prefettura. Diamo la precedenza a quest’ultima per lasciare al terzo posto quella intermedia.

4. – La Prefettura e il Settore.

La prefettura si presenta, nelle sue dimensioni più abituali (10-30 preti), come una riunione organica ed umana di rappresentanti delle comunità di base (o parrocchie) di un ambiente-quartiere senz’altro fornito di una sua certa identità. Non va però passato sotto silenzio il grave handicap di questa assemblea che è ristretta ai preti. Altri agenti della pastorale comunitaria di base, come i responsabili delle catechesi presacramentali, gli amministratori delle offerte ecc. che ormai agiscono stabilmente nelle parrocchie, andrebbero cooptati negli incontri dei pastori. Ma sulla figura dei laici che partecipano ormai a funzioni attinenti il sacramento dell’ordine, senza ricevere alcun riconoscimento pubblico, alcuna ordinazione sacramentale, è tanto evidente che bisognerà tornarne a parlare quanto è chiara l’opportunità che non si faccia ora.

Nell’assemblea di prefettura quale essa si presenta oggi, vige la consuetudine di porre dal basso gli argomenti all’ordine del giorno, anche se non mancano, ci dicono, le pressioni perché vengano ripresi i temi delle assemblee generali, a modo di gruppo di studio. Sta di fatto che nelle assemblee di prefettura si è sempre a un passo dalla possibilità che si rinnovi l’evento spirituale (e il pericolo) di un dialogo sulle cose. A ciò si ovvia immediatamente, dando per assoluto che il vescovo non partecipa a tali riunioni. Nella misura in cui il vescovo è un elemento essenziale e risolutivo della comunione tra i preti e tra le comunità da cui essi provengono, l’assemblea della prefettura ne risulta paralizzata. Essa è inadatta alla comunione per assenza di dialogo col vescovo, quanto l’assemblea generale del clero lo è per l’impossibilità del dialogo tra tanti preti.

Quanto al «settore», la sua assemblea si trova in uno stadio intermedio fra l’assemblea di prefettura e l’assemblea generale. Raccoglie un quinto del clero di Roma in ciascuna delle sue cinque sedi. Di suo il settore potrebbe essere un momento quasi risolutorio, data la presenza di un vescovo, ed anche un momento quasi di base, quanto le prefetture, anche se solo difficilmente riconducibile ad un livello umano immediato, comprendendo il clero di circa cinquanta parrocchie. D’altra parte un controllo severo dell’ordine del giorno potrebbe troncare gran parte delle possibilità del dialogo emergente dagli interessi della base e ridurre l’assemblea di settore ad assomigliare, in quinto, all’assemblea generale. Purtroppo è così.

Di fatto l’incontro di settore ci viene descritto come una riunione di tipo didattico, cioè con relazioni già predisposte e su argomenti comuni alle cinque zone, che ammettono solo qualche domanda di spiegazione da parte del clero. Sembra che talvolta in fine di riunione si alzi la voce di qualche sprovveduto che (all’una meno un quarto) pensa utile di approfittare delle «eventuali e varie» per introdurre qualcos’altro. Se è cosi come ci è stato detto, la riunione di settore è di fatto collocata totalmente nell’orbita dell’assemblea generale del clero, con la sua caratteristica di mancanza di dialogo.

Non fa meraviglia. In entrambe, assemblea generale del clero e assemblea di settore, è presente il vescovo. Il dialogo sarebbe impegnativo e non si fa. Dove si fa, il vescovo non va. Ma forse questo capoverso può esser considerato eccessivamente malizioso e se ne potrà chiedere la cancellazione. Sarà bene sostituirlo con il seguente, altrettanto chiaro sotto l’aspetto formale.

Il risultato degli sdoppiamenti nelle assemblee del clero di Roma è che il dialogo non esiste. O perché manca uno degli interlocutori necessari (prefettura) o perché non c’è la possibilità materiale di esprimersi (settore e assemblea generale). E per quanto riguarda i protagonisti si osserva un processo a forbice. Tanto più è presente il vescovo (uno nell’assemblea di settore, e quasi dieci, escluso sempre il titolare, nelle assemblee generali) tanto minore è la possibilità di discorrere a due voci. Quanto ai preti, nell’assemblea generale si dice loro: siamo troppi, nell’assemblea di settore non c’è tempo, nella prefettura non c’è il Vescovo. Siamo al gioco delle tre carte. Qualunque scegli, quella buona è una delle altre due. E infatti quando i nostri preti tornano dalle loro assemblee, hanno la faccia del provinciale che si vergogna di dire che è sceso a Termini e ci ha creduto un’altra volta.

Tutto è reso possibile, sia detto alla noia, dagli sdoppiamenti creati in una diocesi troppo grande che si rivela cosi ancora una volta la più diabolica, perversa e caricaturale figura di diocesi. E si comprende come incontra la più forte resistenza l’idea di diminuirne le dimensioni. Questo farebbe saltare i raddoppi, e metterebbe tutto il serraglio in un’unica gabbia, in cui non sarebbe più possibile l’eterno rimando alla prossima riunione del piano di sopra o di sotto.

5. – Il Consiglio dei Prefetti e il Consiglio Presbitera1e.

E passiamo ai due organismi rappresentativi.Oltre che a noi il cattivo funzionamento della comunione-comunicazione nelle tre riunioni assembleari dei preti, deve essersi palesato anche ai responsabili maggiori. Infatti allo scopo dichiarato di rendere più continuo e scorrevole il dialogo sono stati aggiunti, come se non si trattasse invece proprio di togliere, alcuni coadiuvanti al rapporto dei preti fra loro e fra preti e vescovo. Si tratta del cosiddetto consiglio dei prefetti e del consiglio presbiterale. Dobbiamo anzitutto presentarli. Il primo, che è peculiare della diocesi di Roma, è però già individuabile da quanto si è detto più sopra. Il secondo, a sua volta, è noto dai documenti del Concilio Vaticano II che ne raccomanda la costituzione (nel decreto sui presbiteri. Ma nel decreto sui vescovi e in posizione che a noi sembra più assiale si parla di suddivisione delle diocesi troppo grandi, e al n° 23.2 se ne fornisce il criterio: «generalmente l’estensione del territorio ed il numero degli abitanti sia tale che il Vescovo, sebbene aiutato da altri, possa personalmente fare i pontificali, compiere le visite pastorali, adeguatamente dirigere e coordinare tutte le opere di apostolato, e specialmente conoscere i sacerdoti, i religiosi e i laici che partecipano in qualche modo alle attività diocesane…». Come si vede è affermato il criterio del rapporto umano! Quanto è detto sui consigli presbiterali, non potrà certo essere adoperato per negare efficacia ad una cosi importante dichiarazione di principio sulle dimensioni umane della chiesa locale. E l’insistenza sul rapporto umano come criterio di formazione di una diocesi è ben più che una mania del nostro gruppo di redazione).

Il consiglio dei prefetti. Come si è detto le parrocchie della diocesi vengono suddivise e riunite su base locale abbastanza omogenea in misura di cinque-dieci parrocchie per gruppo o «prefettura». Il clero della prefettura elegge un prefetto che, riconosciuto dal vescovo, cioè dal Cardinale Vicario, fa da moderatore nelle assemblee del gruppo e trasmette ad esso le comunicazioni del Vescovo stesso. I prefetti, riunendosi mensilmente col Cardinale Vicario, formano il Consiglio dei 35 prefetti. Si tratta di un organismo che attualmente, soprattutto dopo la costituzione del parallelo consiglio presbiterale, sembra avere una funzione di trasmissione della operatività pastorale. Forse è più facile definirlo per quello che non è. Non è un luogo di decisione della pastorale, a cui sembra essere deputato il Consiglio dei Vescovi. Non è un luogo di studio dei programmi, manca ad esso tutta la competenza specifica che hanno p.es. gli uffici del Vicariato.

Non è un luogo di raccolta preliminare delle idee e delle esigenze, sia perché a ciò sembra esser chiamato il consiglio presbiterale, sia perché alle prefetture sfuggono, di fatto se non di diritto, tutti i preti non strettamente parrocchiali. Sotto questo ultimo aspetto dobbiamo colmare una lacuna. Abbiamo infatti più su trascurato di notare che alle assemblee di prefettura manca non solo la partecipazione dei laici addetti stabilmente ad azioni pastorali vere e proprie, ma manca anche completamente la partecipazione di professori di religione, religiosi. impiegati di Vicariato e Vaticano, professori superiore di teologia, eccetera, sicché le prefetture sono piuttosto definibili come le assemblee del basso clero. In ogni caso i 35 prefetti sono essi stessi tutti, se non andiamo errati, parroci.

Sicché il consiglio dei prefetti può essere inteso come l’incontro di alcuni preti-parroci, ai quali vengono presentati i programmi per un’ultima revisione sul modo e per qualche rifinitura operativa, prima che gli stessi ripropongano agli altri preti (leggi restrittivamente i preti di parrocchia) la pastorale già predisposta.

La riproposizione delle tematiche consegnate dal vescovo ai prefetti deve successivamente guadagnarsi lo spazio nell’ordine del giorno dell’assemblea di prefettura, che i preti di base tendono a ricavare piuttosto dai loro problemi del momento o da problematiche già in esame prolungato nel collegio stesso. Mancando un contatto diretto fra i due poli estremi (preti e vescovo che ha mandato le direttive, cioè il cardinale vicario), il prefetto si trova spesso a mal partito e, come non ha potuto esprimere la base presso il vescovo, né gli era richiesto, altrettanto presso il clero di base che si riunisce per i guai suoi, gli sarà difficile superare lo stadio del passacarte. A conferma che la comunione ha i suoi luoghi obbligati, cioè le persone sacramentalmente abilitate e non surrogabili.

La funzione di far conoscere i pareri del clero sembra esser invece riservata al consiglio presbiterale. Esso è composto di preti eletti per metà dalle prefetture (quindi 35 persone) e per l’altra metà circa da altre denominazioni di gruppi di clero: impiegati di curia, professori di religione, addetti a settori pastorali specifici come gli ospedali, le scuole, ecc. Più alcuni nominati personalmente dal vicario. Un totale di circa 80 membri. Riunione bimestrale durata triennale, come i prefetti. L’idea che, anche in fase consultiva ,la pastorale debba esser considerata con l’aiuto degli operatori di base, ci trova naturalmente consenzienti. Ma qui si pone una questione di fondo. Un organismo rappresentativo può esser ritenuto sufficiente per realizzare la consultazione nella chiesa?

6. – La rappresentanza nella chiesa.

È tempo dunque di dare attenzione più direttamente al concetto stesso di rappresentanza nella chiesa. E poi globalmente ai modi della sua realizzazione.Anzitutto il problema teorico: la rappresentanza nella Chiesa. Che un certo numero di persone si raccolgano per eleggere un rappresentante sembra agli occhi nostri un fatto positivo e degno di lode già in se stesso. Ma appunto, agli occhi nostri. Agli occhi di persone educate nella società moderna in cui la rappresentanza gioca un ruolo sempre maggiore, è uno strumento sociale e civile sempre più adoperato.

Per i fatti di chiesa la cosa non va da sé. C’è anzitutto un fatto storico puro e semplice: tra gli antichi la rappresentanza nella costituzione civile non era conosciuta. E la costituzione della chiesa è stata appunto realizzata in tempi antichi.

Ci sia permessa una citazione: «La repubblica romana era ordinata come un comune urbano che, per libera scelta dei suoi cittadini, si dava i governanti e le leggi» (Mommsen: Storia di Roma antica, IV, 458). Quando la cittadinanza romana si estese a cerchi sempre più larghi di persone, non venne mai meno il principio fondamentale, e ogni singolo cittadino poteva venire a votare nel foro dalla più lontana località. Ma mai avrebbe un’intera città potuto mandare un suo rappresentante. «Gli antichi non hanno saputo sviluppare il governo rappresentativo e altre grandiose idee fondamentali dell’odierna nostra vita pubblica. Essi condussero il loro sviluppo politico fino a quei limiti dove esso trabocca e spezza le misure date» (ivi, p. 436) ma non superarono se stessi. «Alla fine il comune urbano di Roma per la sua non naturale estensione si era sfasciato da se stesso» (ivi, p. 458). Quando i romani giunsero all’esaurimento delle possibilità concesse da una repubblica urbana si arrestarono sulla soglia della democrazia rappresentativa. Il fiume del loro sviluppo deviò nella monarchia di Cesare.

Questo fatto, l’estraneità del concetto di rappresentanza civile nel mondo antico (eccezion fatta per la rappresentanza commerciale), deve secondo noi occupare l’attenzione assai più di quanto non lo faccia oggi. Non saremo noi davvero a cassare un concetto nuovo perché nuovo, ma chi vuole inserire istituti antichi, come è la guida di una comunità ecclesiale cristiana e il rapporto del titolare con il suo dante causa- il vescovo, deve domandarsi fino a che punto e con quali accorgimenti l’operazione sia fattibile.

Non è solo un interessante problema semantico o di sviluppo culturale o un’elegante finezza giuridica. È anche un problema teologico, se per caso il rapporto prete-vescovo conoscesse aspetti indelegabili per loro natura.

I teologi che vengono ad affliggerci continuamente con riproposizioni sempre più scontate delle documentazioni conciliari sulla chiesa, e che poi davanti alle applicazioni concrete passano oltre, farebbero bene adirci qualcosa intorno alla presente domanda: «che senso ha la rappresentanza nella chiesa?». Se non si risponde ad un simile problema, tutta l’impalcatura teorica dei consigli rappresentativi dove ha il suo fondamento?

Che non si tratti di un problema ozioso ed estrapolato dal contesto civile a quello ecclesiale, lo dice con abbondanza un fatto, l’unico a conoscenza della nostra ristretta competenza, ma assai significativo. I vescovi antichi si riunivano su diversa scala: facevano sinodi cittadini, regionali, nazionali, internazionali (nei sensi che queste parole odierne possono avere per l’antico), sinodi più generali confermavano sinodi di dimensioni più ridotte (che avevano legiferato anche su questioni più generali) ecc. Ma non ricordiamo un caso di concili riuniti su basi di rappresentanza. Il Concilio, benché limitato linguisticamente o territorialmente o politicamente o come altro si vuole, era però sempre inteso come incontro di tutti i vescovi dalla denominazione prescelta. E non ci pare che al concilio Vaticano II sia venuto in mente a qualche vescovo di lasciare delega ad un collega, quasi come in una riunione di condominio, o che il regolamento abbia previsto il caso. E se il concetto di servizio pastorale fosse di suo irriducibile alla rappresentanza? Noi la domanda la vediamo molto estesa. Per esempio, nei riguardi del consiglio episcopale del Papa) formato con i presidenti eletti dalle conferenze episcopali nazionali (è la sindrome faraonica della chiesa cattolica che si manifesta fra l’altro con la predilezione per le piramidi). Si noti la profonda differenza concettuale del consiglio episcopale e dell’antico collegio dei cardinali. In quest’altro collegio i membri erano vescovi o preti o diaconi di città-cardini o di affari-cardini ma non rappresentanti dei più «deboli» vescovi loro limitrofi, ai quali nessuno avrebbe mai detto che essi erano stati sufficientemente espressi dal vescovo-cardine.

Ma soprattutto la domanda ora interessa per il presente caso: che valore hanno i consigli presbiterali elettivi? Il concilio aiuta poco perché ne parla, come dicevamo, non nella costituzione sulla chiesa, o nel decreto sui vescovi, ma nel decreto sulla vita dei presbiteri. Ed è abbastanza riducibile ad una norma riguardante la corta misura, quasi una norma transitoria, in attesa che si provveda con le misure più vere teologicamente, quelle indicate quasi per esteso nella lunga parentesi posta da noi più sopra.(Un altro caso di difficile soluzione è quello dei cosiddetti consigli pastorali, che dovrebbero comprendere preti e laici ed affiancare il vescovo per qualche altro motivo ancora. Giocando là il fattore di una maggior libertà e differenziazione dei carismi laicali rispetto ai servizi del sacramento dell’ordine, che di suo è più omogeneo, si comprende meglio perché, intorno ai consigli pastorali, non si sa neppure da che parte incominciare e su quale base impostare le rappresentanze laicali. Tanto è vero che non se ne fa nulla quasi dappertutto).

Ci riteniamo veramente in diritto di una risposta soddisfacente. Perché dopo anni e anni di dialogo con i nostri preti, superati tutti gli ostacoli dei loro continui trasferimenti, non senza molta fede e con l’aiuto della grazia della perseveranza, quando ci riesce di vederli in maniera appena appena soddisfacente portatori di un’ombra del volto della comunità parrocchiale, veniamo a sapere che, nel dialogo con il vescovo, essi sono surrogati dal prete della parrocchia a fianco.

Dicevamo: e se fosse illegittimo teologicamente costituire dei collegi rappresentativi sul piano sacramentale? Se il dono dello Spirito connesso con l’Ordinazione presbiterale (e anche con la cresima) fosse da considerarsi non rappresentabile, non delegabile, non interpretabile se non dal suo portatore, e cioè solamente comunicabile?

Come si vede gli strumenti rappresentativi che vengono posti a sostegno delle sconclusionate fol1e assembleari del clero, hanno a loro volta un ben incerto piedistallo teorico. Noi tanto per incominciare, ci atterremo al giudizio che le cose dette invitano ad esprimere. Fino a prova contraria, riterremo gli organismi rappresentativi privi di significato nel collegamento di identità umane caratterizzate sacramentalmente (preti, e non meno, vescovi e laici).

Sta bene a questo punto il cap. 3 della Regola di S. Benedetto: «Ogni volta che in monastero si devono trattare cose di importanza, l’abate raduni tutta la comunità ed esponga egli stesso di che si tratta. E udito il parere dei fratelli, consideri dentro di sé la cosa, e faccia quel che gli sembrerà più utile. Abbiamo detto di chiamare tutti a consiglio, perché spesso il Signore ispira al più giovane il partito migliore… se infine si tratta di affari del monastero di minore importanza, ricorra semplicemente al consiglio degli anziani, come è scritto: consigliati in tutto ciò che fai e dopo non avrai a pentirtene [Ecclesiastico, 32,24]”.

1°) Resta confermato che pure in un monastero dove il maestro riceve il nome di Dio, Abba Padre, gli è comandato di ascoltare prima di decidere.

2°) È acquisito che la comunità non ha membri di prima e seconda scelta e che l’assemblearità nella Chiesa ha motivazioni teologiche, ancor più che antropologiche.

3°) Resta confermato che gli antichi non conoscevano rappresentanza per delega nelle cose dello Spirito, e che quindi un eventuale uso degli strumenti rappresentativi moderni può entrare nella Chiesa solo a patto di una previa verifica della sua legittimità, verifica a tutto carico dei proponenti. Se anche è permessa una consultazione dei soli anziani, questi non sono rappresentanti dei giovani e la loro consultazione è limitata alle cose di minor conto. Si tratta di un modo di vedere le cose del tutto rovesciato rispetto all’attuale, nel quale si tende a dare alle assemblee gli argomenti meno scottanti, riservando agli addetti ai lavori le questioni decisive.

Se continuiamo a scrivere un articolo che fin dalle prime righe abbiamo dichiarato inutile perché volto a pesare fantasmi ciò è, come sapete, per il voto fatto di contribuire all’analisi dell’esistente-apparente, per demitizzarlo, per aiutare tutti a venirne fuori il più presto possibile. Nello stesso spirito continuiamo con una seconda riflessione, stavolta sul fatto, intorno ai due consigli rappresentativi.

7. – Analisi del sistema elettorale vigente per i consigli rappresentativi.

Negli organismi rappresentativi, come si sa, molto dipende dal sistema elettorale prescelto. Un sistema elettorale soddisfacente sotto tutti gli aspetti non esiste. Al punto che alle volte si ricorre al sistema bicamerale, che permette di dare ad una camera i vantaggi di un sistema elettorale e di compensare nell’altra gli svantaggi della prima. Sicché all’ampia rappresentatività del sistema proporzionale del Parlamento italiano, fa riscontro la più dosata rappresentanza del Senato, eletto a collegio uninominale.

Stante la difficile posizione teorica di un presbitero rappresentante di altri presbiteri, quale l’abbiamo enunciata più sopra, e per tanti altri buoni e onesti motivi, si vorrebbe che la legge elettorale che regola la costituzione dei due consigli rappresentativi in questione fosse quella che favorisce maggiormente la rappresentanza, e cioè qualcosa che assomigli al sistema proporzionale, quello cioè che ripresenta nel piccolo del parlamento le proporzioni delle idee come sono nell’intero collegio degli elettori.

Invece nelle elezioni dei consigli di presbiteri viene adoperato il sistema del collegio uninominale, sul tipo delle elezioni del senato italiano, e peggiorato dalla non utilizzazione dei resti, il che rende i consigli di presbiteri singolarmente simili, alla camera dei Lords inglesi. Per intenderci, esemplifichiamo in una prefettura di 20 preti. Poniamo: dodici di essi possono esprimere il prefetto o il rappresentante al consiglio presbiterale, e otto, siccome i resti non vengono riutilizzati, resteranno, tanto per stare in argomento, come don Falcuccio. Se si suppone, come avviene spesso nelle cose umane, che nella diocesi di Roma esista una maggioranza diffusa di idee che tocca, poniamo, i due terzi del clero, e una minoranza di un terzo, sarà praticamente inevitabile che il sistema uninominale porti 35 rappresentanti della maggioranza e nessuno della minoranza, ameno che, in qualche collegio, un sommarsi di fattori imprevedibili inverta le proporzioni.

A voler essere comprensivi e magnanimi fino in fondo, si può capire che un consiglio operativo (contraddizione in termini, ma lasciamo correre) sia opportunamente calibrato sulla maggioranza degli operatori pastorali, anche se questa potenzialità operativa si paga con l’emarginazione degli operatori di minoranza. Ma è davvero incomprensibile come un consiglio consultivo (stavolta il nome va bene), quale sembra che sia il consiglio presbiterale, venga realizzato con una legge elettorale tanto grossolana. La non utilizzazione dei resti è incomprensibile, se si pensa che il consiglio debba servire a far conoscere ai vescovi i pensieri del clero. Davvero non si riesce a credere che i vescovi pensino di avere una rappresentanza del clero adoperando il metodo del collegio uninominale senza utilizzazione dei resti. È tecnicamente il sistema meno rappresentativo delle percentuali della base elettorale.

Poi ci si domanda perplessi come sia sfuggito che in un collegio venga eletto con il sistema uninominale un rappresentante, e che la stessa maggioranza con la stessa legge elettorale possa eleggere un secondo rappresentante, che ovviamente sarà la copia del primo. Il sistema bicamerale ha un unico vantaggio: che la stessa base elettorale, setacciata in due modi diversi, esprime due camere complementari, e nel complesso più aderenti alla base che non un’unica camera. Se le due camere sono uguali perché elette dagli stessi collegi, con lo stesso sistema non si vede perché non se ne faccia una sola.

Ci si domanda anche perché un numero cosi ampio di collegi nel consiglio presbiterale. A che scopo, dal momento che il corpo elettorale tutto intero, il clero di Roma, presenta al suo interno rapporti personali localizzati anche, e forse molto, al di fuori della piccola prefettura. Un prete ha forse affinità di studi, di visione pastorale, con molti colleghi per i quali non può votare e magari con nessuno, almeno in egual misura, del suo piccolo collegio elettorale. Come si vede, uno strumento forse estraneo al mondo sacramentale è stato certo adoperato nel modo peggiore.

I motivi non li sappiamo. Quelli che vengono in mente, i più naturali in ogni analisi similare, non sono riguardosi. Che i vescovi non abbiano esaminato neppure la corrispondenza di fatto fra scopo e strumento, oppure che abbiano voluto distruggere la rappresentanza delle minoranze, e segmentare talmente sia la maggioranza che la minoranza in modo da evitare l’emergere di linee coestese alla diocesi intera. Questi giudizi non possiamo sottoscriverli in base ad alcun fatto probante. Ciò non toglie che ad essi si resti esposti.

Ma alle volte la verità è la più semplice di tutte. Che la chiesa non è capace di maneggiare questi strumenti. Che non sono i suoi. Che la rappresentanza è roba per altri organismi, per altri corpi sociali. Ed allora meglio che non impari ad adoperarli, anzi che non i gliene venga nemmeno l’idea. Che se ne dimentichi al più presto.

8.-Alcune proposte.

Noi concludiamo rapidamente con alcune proposte positive di relativamente facile attuazione. Saltiamo con buona volontà a piedi pari tutti i problemi di fondo, i quali restano tuttavia i passaggi obbligati di ogni seria e profonda crescita di Chiesa. Da essi prescindiamo, presi dal desiderio di veder almeno migliorare ciò che esiste. Ai momenti assembleari è assolutamente necessaria la simultanea presenza di preti e collaboratori laici i quali operino nell’orbita di servizi pastorali ordinabili. È ugualmente indispensabile un effettivo e libero spazio di dialogo, nonché la possibilità di contribuire alla formazione dell’ordine del giorno. Una parola va spesa per la misura più semplice ed immediata. La presenza del Vescovo nelle assemblee mensili delle cinque-otto prefetture del settore che dirige. La loro assenza, comunque motivata, ci pare inconcepibile. Le ragioni avranno il peso delle nostre, quando ci disimpegniamo dalla Messa domenicale. Pensiamo che un vescovo possa giustificarsi più facilmente di una assenza al precetto festivo, che non dell’aver trascurato la concelebrazione che lui stesso ha convocato tra i suoi presbiteri. E se sono le nostre richieste parrocchiali ad impedirgli l’assemblea con il clero, invitiamo preti e laici a fare a meno di chiamarlo nelle parrocchie, finché egli non abbia avuto modo di sistemare nel suo carnet le riunioni mensili con i preti, che ci sembrano il suo primordiale dovere.

Quanto ai momenti rappresentativi, è evidentemente necessaria una vera rappresentatività.

Ripetiamo però, ancora una volta, che solo la riduzione della diocesi a dimensioni minori porterà ad un miglioramento reale per mezzo della eliminazione delle strutture superflue, quattro su cinque. Ma chi si accolla la responsabilità di adoperare nel frattempo strumenti .probabilmente eterogenei alla struttura della chiesa, e in ogni caso tanto complessi, ha il dovere primario di cercare di farli funzionare.