Lettera 101 (Prima Serie)

Roma: Quale Citta’ Domani?

Da qualche tempo in qua la riflessione sui problemi della nostra città va occupando sempre maggiore spazio nella “tenda”. Cresce in noi e nei nostri lettori la consapevolezza della responsabilità che abbiamo, come cittadini e come cristiani, nei confronti di una realtà “locale” sempre più deteriorata. Ma per poter operare efficacemente su questa realtà è indispensabile acquisire un’informazione ampia, organica e aggiornata, che solo organismi di ricerca specializzati ci possono fornire. Per questo ci pare opportuno pubblicare il testo di base di un’indagine condotta dal CENSIS sul tema: “Una lettura in prospettiva: Roma”. Questo studio è di un anno fa, ma non è affatto invecchiato, trattando delle grandi linee di sviluppo della città. L’autore vuole proporre una lettura nuova di Roma. Fin qui, egli osserva, ci si è limitati ad un’analisi “fotografica”, cioè statica, della città, della sua disgregazione, dei suoi marcati squilibri sociali. Si sono denunciati i mali, si è fatto appello alle responsabilità, e così tutto sommato si è rimasti fermi ad uno sterile moralismo che poi facilmente approda al fatalismo. Va pertanto tentata un’altra via: quella dello studio della realtà di Roma nel suo sviluppo, così da individuare quelle forze sociali in espansione che possano assumersi un ruolo di stimolo e di iniziativa anche nella ricostituzione del tessuto culturale della città. Rilevato negli ultimi trent’anni l’attuarsi in Roma di un grosso processo di terziarizzazione, prevalentemente determinato dallo sviluppo del commercio e dei servizi, l’autore dell’indagine vede appunto la base eventuale di una futura vitalità culturale e sociale nei gruppi imprenditoriali più vivaci, nonché nell’alta borghesia dirigenziale, insediatasi nella capitale via via che vi si sono andati concentrando organismi finanziari, commerciali, amministrativi, di ricerca e di progettazione. Quindi una certa borghesia, evidentemente non quella che ha dato prova della qualità della sua iniziativa culturale in decenni di scempio urbanistico; una borghesia, diremmo, di livello nord-europeo. Ma l’autore preferisce cercare nel passato stesso della città il modello da seguire: nelle “università” di arti e mestieri e nelle confraternite della Roma preunitaria. Emerge così l’altro aspetto saliente di questa indagine: l’esigenza di una cultura della città in quanto tale, e non più soltanto in quanto capitale o “città santa” o “centro scientifico della nazione”. Beninteso, l’autore non trascura il ruolo delle forze politiche, della chiesa locale, dell’amministrazione comunale e dei suoi organi decentrati, dei comitati di quartiere ecc.. Ma le sue speranze nell’emergenza di una cultura “romana” sono affidate essenzialmente all’eventuale iniziativa dei gruppi sociali “dinamici”: “meglio un’innovazione anche disordinata” e al limite “speculativa” egli scrive, “che un’assenza di iniziative”. Certo dopo anni di aspettative deluse, è difficile contestare conclusioni così amare. E se pure mille obiezioni vengono alla mente, la realtà resta quella che è, e non si può non prenderne atto. Ma se nonostante i tentativi fatti, i partiti politici, la Chiesa, gli istituti universitari e i “movimenti” non sono riusciti a compiere “una riflessione culturale in senso proprio” sulla città, è forse più realistico puntare su forze sociali che finora non hanno manifestato in alcun modo non diciamo una vocazione, ma neppure una qualche sensibilità per questi problemi?

Comunque, al di là delle indicazioni terapeutiche, interessanti certo ma discutibili, l’indagine merita un’attenta lettura per l’analisi che offre della realtà romana nel suo sviluppo più recente. Ci auguriamo che essa susciti qualche intervento da parte dei lettori, e dia luogo ad uno scambio di idee su queste pagine.

Qui riportiamo il testo base dell’indagine, tralasciando di pubblicare gli allegati per motivi di spazio. Il testo, circolato in qualche convegno, non ci risulta sia stato sinora dato alle stampe.

UNA LETTURA IN PROSPETTIVA: ROMA

“Anche le città, come per le persone ed i movimenti collettivi, si devono spesso domandare, per conoscersi, da dove vengano e dove vadano, quanto cioè il loro essere di oggi dipenda dalla deriva storica su cui da tempo si stanno muovendo e/o dagli obiettivi di sviluppo e di trasformazione che esse si possono realisticamente porre nel futuro.

L’esigenza di una tale domanda è evidente per tutte le città, ma in modo particolare per Roma, una realtà che sarebbe fatale cercare di capire in fotografia, per come essa si presenta in questo momento, senza profondità di campo nel comprendere i processi dinamici che ci sono sotto. Roma, in effetti, vista e vissuta oggi, può dare un’impressione brutale, ma forse non del tutto errata, di città in parte imbarbarita e spaccata: imbarbarita perché ci sono i tanti, troppi e quotidiani episodi di violenza politica, ci sono i tanti furti, rapine e sequestri di persona, ci sono i tanti sintomi di azione e copertura del terrorismo più ghettizzato, ci sono le disperate frantumazioni del tessuto sociale e della convivenza collettiva delle periferie e delle borgate, c’è la paura che rende vuote le strade ancor prima della mezzanotte, ci sono i tanti devianti scombinati nella violenza e nella droga; e dall’altra parte, spaccata perché con intrecci di causa e d’effetto con l’imbarbarimento non ancora e non sempre avvertiti ed accettati, ci sono i tanti egoismi, dei gruppi e dei quartieri ricchi, c’è la deresponsabilizzazione crescente verso i problemi cittadini da parte dei ceti formalmente “dirigenti”, c’è la crescente opacità morale verso le esigenze crescenti di solidarietà nella città, c’è la stanca ripetizione di idee e slogan antichi senza alcun nuovo input di stimolazione e provocazione culturale, c’è la quasi assoluta mancanza di programmi degni di questo nome.

Una società quindi imbarbarita e spaccata insieme, se vista con l’occhio crudo della fotografia dell’esistente. Ed in effetti anche i pochi tentativi interpretativi degli ultimi anni non sono usciti da tale duplice, combinata logica. A parte infatti le riflessioni di stampo giornalistico o di costume, compiute da intellettuali non sempre radicati nella realtà romana, le due più importanti linee interpretative sono state da un lato quella della sottolineatura dello sfascio, di tipo qualitativo, fino all’imbarbarimento, del tessuto sociale ed umano della città (linea su cui si sono trovati sia alcuni settori tradizionalisti sia alcuni interpreti di punta come l’ultimo Pasolini); dall’altro lato quella della sottolineatura dell’antitesi schizofrenica fra zone ricche e borgate, fra alta borghesia sottoproletariato urbano (linea su cui si sono trovati concordi gli studi dell’istituto di sociologia dell’università facente capo a Ferrarotti e le analisi del convegno diocesano del febbraio ’74, centrate sull’ipotesi che a Roma “chi è ricco ha sempre di più e chi è povero ha sempre di meno”).

Sono note, ma è utile ricordarle anche in questa sede, le chiavi di questa duplice lettura della città: la valutazione di quanto abbiano giocato lo scempio urbanistico ed il conseguente alto tasso di anomia della società romana in questi ultimi trenta anni; la valutazione del peso che nell’espansione urbanistica a macchia d’olio e nell’anomia hanno avuto le immigrazioni massicce di persone e gruppi di quasi impossibile integrazione nella vecchia struttura sociale; la valutazione di quale fattore di devianza reale sia stato l’accumularsi di deficienze profonde dell’assetto civile della città (dalla mancanza di case all’abusivismo alle carenze dei servizi sociali al disordine dell’organizzazione amministrativa, ecc.); la valutazione di quale caduta della qualità umana della convivenza collettiva sia stata provocata dal crescere dell’egoismo individuale e collettivo combinato con la volontà di un alto livello di consumi in ogni strato della popolazione; la valutazione del degrado (o della nascita, addirittura) della realtà sociale delle periferie e delle borgate. In fondo se Roma è una città imbarbarita e spaccata, di ragioni ce ne sono ad abundantiam.

Ma viene da domandarsi se l’analisi “fotografica” dell’imbarbarimento e della schizofrenia possa bastare per far capire, anche e specialmente ai romani, cosa sia oggi la città, da dove essa venga e dove essa vada. Certo tale analisi è profondamente vera ed ha profonde basi di riscontro empirico; ma è anche profondamente limitata, perché essa si ricollega a criteri interpretativi troppo esplicitamente moralistici, si tratti di segnalare con Pasolini il vuoto disperato degli occhi dei borgatari, o di segnalare con il convegno diocesano l’opacità e la deresponsabilizzazione delle classi ricche o burocratiche, o di segnalare con Ferrarotti i guasti del sistema di potere che ha governato Roma negli ultimi decenni. Su queste strade si capisce certo una parte anche importante della crisi della città, ma si resta su un piano troppo semplificatorio (morale appunto) di analisi e valutazione; e si rischia di restare su una logica di tipo fatalistico, quasi che non ci sia da fare molto, se non un richiamo ai doveri ed alle responsabilità di tutti.

Ora, se c’è una cosa che Roma non può permettersi è proprio quella di restare nel fatalismo, di rinunciare all’impegno. Per troppo tempo ha giuocato infatti sulla città il peso dello stereotipato giudizio che il popolo romano fosse troppo menefreghista, cinico, superbo, pecione, melafumo, scioperato, plebeo, boiaccia per poter stare alla base di una città moderna e culturalmente avanzata. La storia può passarci sopra, non influenzarla, su una realtà che si sente capace di vivere in saggezza antica anche situazioni ed episodi di crisi. Ma una città di tre milioni di abitanti (di cui più di due immigrati e quindi incapaci di interpretare anche minimamente la saggezza antica) non può più essere lasciata a se stessa, al suo fatalismo, al disimpegno collettivo, quasi all’ideologia della bontà oggettiva del disimpegno. Una città che è ormai terribilmente complessa (per dimensioni, per composizione sociale, per intrecci di tensioni collettive) non può non essere in qualche modo “governata”.

In effetti quando Silvio Negro scrive che nel popolo romano “v’è un misto di grande e di meschino, di generoso e di ignobile, di feroce e di mite, di attivo e di sgovernato”, mette quasi inconsapevolmente in luce con l’ultima contrapposizione il punto forse più importante per la formazione di un’ipotesi interpretativa di lungo periodo: l’ipotesi che questa città sia ad un tempo attiva (nei tanti egoistici comportamenti individuali e collettivi) e sgovernata (nelle sue linee di evoluzione generale e nei suoi schemi di organizzazione civile).

Fra l’essere attiva e l’essere sgovernata, è quest’ultimo aspetto che risulta evidente a tutti; oggi come nel passato, Roma è sembrata sempre ed a tutti troppo grande e troppo capitale per essere governata in quanto città, doveva essere qualcosa di più, se possibile doveva avere una qualche missione: basta pensare alla tradizionale concezione di Roma che hanno avuto ed hanno gli ambienti cattolici (“città santa”, “città di Dio”, “carattere sacro della città”, “sede vescovile del Sommo Pontefice”, ecc.); basta pensare all’idea che di Roma si erano fatti i primi governatori post-unitari (“l’idea universale con cui l’Italia va a Roma è quella della Scienza: Roma deve essere un centro scientifico della nazione” è una frase non dimenticata di Q. Sella); basta pensare a come il fascismo fece di Roma e della idea della Romanità il vertice di una bolsa costruzione dottrinaria e politica, che oggi può far ridere (con le aquile romane e il passo romano) ma che per molti anni è stata moneta corrente nella realtà cittadina, anche sul piano architettonico ed urbanistico; basta pensare a come ancora oggi, pur se in forma affatto retorica o mitica, si ripropone una idea universale della città (ancora nel ’77 l’attuale sindaco scriveva che “Roma dovrà trasformarsi da città burocratica a città politica, in dialogo con l’eredità storica, la ricerca scientifica avanzata e l’arte”).

La funzione di governo in altre parole ha sempre “volato alto” su una città e su un popolo che forse non chiedevano di meglio che essere lasciati ai propri affari, ai propri egoismi, ai propri traffici più o meno attivi e speculativi. Si è avuta così una situazione paradossale: dietro le grandi parole e le grandi “idee universali”, il governo di Roma ha ricalcato nei confronti della città quel criterio di “terzietà neutrale” che i costruttori dello stato unitario avevano seguito per sceglierla come capitale (“neutrale geograficamente, per la sua posizione abbastanza distante dalle estremità della penisola; neutrale politicamente, perché priva di una politica locale capace di entrare in concorrenza con quella raccoltasi intorno al nucleo piemontese; neutrale economicamente per la sua debolezza produttiva”). La città non solo quindi non ha avuto capacità di propulsione e di egemonia nei confronti della società italiana, ma ha al suo stesso interno subìto la prigionia oltre che della retorica, della neutralità e della terzietà (che sarà poi anche terziarizzazione): ha subìto il peso di non essere governata come struttura sociale, come convivenza collettiva, come realtà economica, come assetto civile. Ed è facile per chi non è governato, città o popolo che sia, diventare o restare menefreghista, cinico, pecione e boiaccia.

Ma sarebbe stereotipata indulgenza ai miti romani continuare a sottolineare tali caratteristiche senza ricordare che ad una situazione “sgovernata” corrisponde sempre, non importa se per causa o effetto, una vitalità di base, anche se disordinata o furbastra. Ed in effetti una dimensione “attiva” di Roma è esistita ed esiste, sotto la patina della città essenzialmente parassitaria; ed è possibile, senza essere fraintesi (perché una dimensione parassitaria comunque esiste in una capitale, e specialmente in una capitale come Roma), indicare alcuni aspetti di non sempre immediata evidenza di tale attività:

anzitutto il carattere decrescentemente rapace e servile insieme dello sfruttamento della dimensione e delle opportunità turistiche. Oggettivamente non si può dire, oggi, che a Roma vi sia un’industria del forestiero, anzi rispetto ad altre città e zone italiane il rapporto con il flusso turistico è diventato più funzionale ed asettico, senza banali forzature folkloriche e senza accentuate furberie di sfruttamento (non avrebbe senso oggi scrivere ad esempio che “il forestiero, dal momento in cui si affaccia alla frontiera, si ritrova incapsulato entro un mondo specializzato di vetturini, albergatori, servitori e ciceroni”);

in secondo luogo il fatto che lo stesso carattere burocratico della struttura sociale (e burocrazia vuol dire in Italia passività e parassitismo) non è andato affatto aumentando nel corso degli ultimi anni. Come si può constatare dalle tabelle di cui all’allegato n.1, la quota di occupati nella pubblica amministrazione era del 28,4% al 1951 ed è passato al 19,9% nel 1977, con un grosso decremento percentuale; ed anche negli ultimi anni, dal ’71 al ’77 (anni di crisi occupazionale, anni in cui solo il terziario ha creato nuovi posti di lavoro) gli impiegati pubblici romani sono aumentati di solo duemila unità;

certo la città ha visto nel dopoguerra crescere fortemente il settore terziario (passato dall’occupare il 66,8% nel ’51 ad una percentuale del 77,9% nel ’77, mentre l’occupazione industriale passava nello stesso periodo dal 29,5% al 20,0%), ma tale crescente terziarizzazione si è concentrata quasi essenzialmente sul commercio e sui servizi vari (che insieme nel ’51 coprivano il 27,3% degli occupati ed al ’77 ne coprono ben il 43,6%) cioè su due settori in cui pesano molto più l’iniziativa e l’attività di singoli, di famiglie, di società private che l’impegno dell’amministrazione e dell’impegno pubblico;

ma il processo di terziarizzazione della città è stato anche frutto di un più generale analogo processo di tutta l’economia e la società italiana, con la crescita (anche all’interno delle imprese e dei gruppi industriali) di quelle funzioni finanziarie, commerciali, amministrative, di ricerca e di progettazione che quasi fatalmente tendono a concentrarsi nelle città capitali, anche per gli evidenti loro legami con i circuiti politici del potere. Cosicché è potuto avvenire che si siano trasferite a Roma quote non indifferenti di potere e di attività terziaria, a svuotamento della vitalità di alcune altre grandi città italiane; e che si sia andata di conseguenza formando una fascia di dirigenza alto-borghese che insieme a molti difetti presenta anche l’aspetto positivo di costituire la base eventuale di una futura vitalità culturale e sociale diversa da quella attuale, tutta molto frammentata e di base.

Rifiuto della rapacità turistica, controllo della burocratizzazione, sviluppo del terziario (commerciale e di servizi vari) di stampo meno impiegatizio, formazione ancora rozza di una nuova classe dirigente terziaria non di impegno pubblico, queste le constatazioni che in senso prospettico sembrano le più importanti ai fini di capire cosa va diventando la città in questi anni. Certo si tratta di una valutazione di larga sintesi ed in parte impressionistica, certo la società romana ha in sé per necessità e per lungo tempo un destino anche turistico e burocratico, certo la vitalità del tessuto sociale di base non è di grande qualità specialmente in termini di solidarietà collettiva, certo quindi che molte delle letture fin qui tradizionali mantengono la loro pur parziale validità; tuttavia non si può negare che si tratta di una città che trova in alcuni comparti di servizi ed in alcune piccole responsabilità di iniziativa una propria consistenza vitale, parzialmente autonoma (parzialmente perché è evidente che lo sviluppo del terziario romano, anche di commercio e di servizi, non sarebbe possibile agli attuali livelli senza il peso del turismo e della pubblica amministrazione) dalle vicende del flusso di potere e di denaro assorbito dall’esterno.

Non si tratta, a dire il vero, di una situazione del tutto nuova rispetto al passato:

basterà ricordare ad esempio che nel 1870, all’epoca dell’unificazione d’Italia, Roma aveva su 200.000 abitanti complessivi (uomini, donne, vecchi e bambini) ben 35.000 commercianti e artigiani, particolarmente forti anche sul piano sociale, se si pensa a quello che erano le università di arte e mestiere e le confraternite religiose che li univano;

certo l’espansione di Roma come capitale amministrativa e come struttura urbana ha creato via via (a fine ‘800 come negli anni ’50) le basi di una sorta di appiattimento della base commerciale e di servizio della città a favore di altri settori (dall’impiego pubblico all’edilizia), ma oggi nel generale blocco dei processi espansivi delle città italiane – e Roma non è sfuggita a tale trend – si ritorna a situazioni più normalizzate, con la riemergenza quindi delle costanti di fondo della struttura sociale della città;

fra tali costanti c’è evidentemente una sorta di piccola imprenditorialità di servizio, commerciale e no, che in parte appare anche dalle cifre statistiche (nel ’51 c’erano su 100 occupati 8,5 lavoratori in proprio e 55,2 lavoratori dipendenti di tipo esecutivo; al 1977 le due cifre sono passate rispettivamente al 10,6% e al 43,5%, con un grosso passo di avvicinamento) ma che in parte ancor maggiore riguarda l’ambito dell’occupazione non istituzionale e del doppio lavoro (è noto che buona parte delle iniziative di commercio e di servizio, dalle boutiques alle carrozzerie, sono legate all’iniziativa di persone che hanno già la sicurezza di un primo lavoro e di un primo reddito);

che si tratti di una capacità di iniziativa non di basso livello (di puro arrangiamento, in altre parole, di stampo levantino o da grande città orientale) è confermato dal fatto che le nuove iniziative sono di consistenza tale da diminuire la densità media delle aziende commerciali e di servizio (dal ’71 al ’76 si è passati da 2.272 a 1.927 esercizi commerciali per 100.000 abitanti e da 391 a 355 esercizi pubblici sempre per 100.000 abitanti, mentre il rapporto era rimasto pressoché costante in tutto il decennio precedente superiore); e da permettere nuova occupazione di lavoratori dipendenti (fra il ’71 e il ’77 circa il 60% dell’incremento di occupazione terziaria si è verificato nei lavoratori dipendenti del settore commerciale; 11.000 dirigenti e impiegati e 41.000 operai ed assimilati su 89.000 unità di incremento di occupati nel terziario. E si tratta di occupazione istituzionale, formale, senza tener conto delle grandi sacche di lavoro occulto, nero, di sottoccupazione che pure esistono in città.

L’analisi dei dati fatta in prospettiva conferma allora una impressione anche visiva della città, impressione dove giuoca più la moltiplicazione e la vitalità delle tante iniziative di servizio e commerciali (ed il relativo loro buono stato di salute) che le tradizionali immagini di appiattimento burocratico ed impiegatizio e di sfruttamento turistico ad oltranza.

La città, in altre parole, appare più uniformata alla generale realtà italiana, fatta tutta di vitalità rasoterra, che propagatrice (come forse per anni hanno fatto pensare i grandi mezzi di comunicazione di massa) di pigrizia impiegatizia e cialtroneria plebea. C’è stata una sorta di “italianizzazione” di Roma, senza clamori, senza idee universali, senza grandi impegni programmatici, forse per pura simbiosi; ed una italianizzazione nel segno di una sostanziale privatizzazione del modo di vivere sul piano economico (ed anche sul piano sociale).

In altre parole sembra di poter cogliere da quanto sta avvenendo a Roma che l’aspetto italiano che più è stato qui recepito e rielaborato non è quello della domanda di un nuovo intervento pubblico e di tendenziale impiegatizzazione ma piuttosto quello di una frantumata e un po’ individualistica iniziativa terziaria (almeno a Roma, dove non è pensabile, per ragioni storiche, una carica imprenditoriale di piccola azienda industriale). Giocano, in questa tendenza ad una vitalità di base, vari fattori: da quelli tradizionali della volontà di autonomia (superba e plebea al tempo stesso) che era tipica delle zone meridionali da cui è giunta la maggior parte della immigrazione del dopoguerra; a quelli legati alla relativa ricchezza creata dalla concentrazione a Roma di attività e risorse finanziarie precedentemente localizzate in altre parti d’Italia; a quelli legati alla moltiplicazione di spezzoni di lavoro part-time e comunque non istituzionali, spezzoni che contribuiscono a rendere alto il reddito familiare e quindi la capacità di acquisto dei nuclei familiari; a quelli legati al fatto che una parte del reddito proveniente da spezzoni di lavoro ulteriori rispetto a quelli del capofamiglia restano alla discrezionalità di spesa dei singoli percettori (specialmente giovani e donne) e si incanalano verso tipi articolati e congiunti di consumo copribili solo da articolate offerte di iniziative commerciali; a quelli connessi alla riscoperta del servizio personalizzato da parte dei cittadini romani, che hanno sempre voluto evitare la massificazione urbana e mantenere una propria identità di consumo e di rapporto individuale con il fornitore di beni e servizi (non c’è probabilmente zona al mondo in cui ci sia una così stretta personalizzazione del rapporto con l’autofficina, il venditore di elettrodomestici, il ristorante e quant’altro riguardi una prestazione a cui si tiene, per qualità e per calibratura personale).

Una città privatistica quindi, nella sua pur intensa ed inevitabile terziarizzazione; una città in cui i singoli e le famiglie tendono a far da sé (talvolta in modo arrangiatorio, talvolta anche in modo funzionale); una città in cui certamente si ridistribuisce ricchezza più che crearne ma in cui i singoli e le famiglie vogliono avere la massima discrezionalità nel processo di spendita della ricchezza; una città di accumulazione pubblica e di spesa privata, con tutte le distorsioni che ciò comporta, ma con una grande (e forse troppo facile) libertà di spendere come si vuole.

Sono sintomi di questa vocazione privatistica delle decisioni di spesa della realtà romana dei fenomeni molto conosciuti e che non mette conto di approfondire qui in maniera specifica, ma solo di ricordare: il fatto che a Roma vi sia il tasso di più alta frequenza nelle scuole private tanto è vero che nella scuola dell’obbligo al 1977 andavano in scuola privata il 15,4% del totale degli alunni contro il 5,8% della cifra italiana complessiva e che nella secondaria superiore le relative percentuali sono del 14,3% a Rom, contro il 9,8% sul totale nazionale; il fatto che ci sia il più alto tasso di case di cura private (343 istituti per ogni 100.000 abitanti a Roma rispetto ai 153 istituti del totale italiano); il fatto che all’individualismo dei processi di acquisizione della casa nel dopoguerra si sia sostituito solo l’individualismo

più o meno disperato dei circa 800.000 abusivi, oltre al fatto più evidente e conosciuto della moltiplicazione, spesso opulenta e gratuita, dei consumi privati dei diversi tipi.

Stravince quindi a Roma il privato sul pubblico, il personale sul collettivo, l’individuale e familiare sul civile e sul pubblico. E non c’è dubbio che tutto ciò porta, esaltando l’aspetto più egoistico della cultura della città, ad una sorta di imbozzolamento nei nuclei di base della società (visti come unità di impegno economico e di tranquillità sociale) e parallelamente ad una sorta di grande de-socializzazione del tessuto umano. Una folla di soli, è stato scritto, ed è in parte vero, come per la maggior parte delle città del mondo; ma Roma è una folla di piccoli nuclei: familiari, commerciali, amicali, categoriali. Un intreccio solo fisico di tanti piccoli circuiti tendenzialmente chiusi ed egoistici.

Anche qui saltano agli occhi sintomi di diverso tipo, statici e visivi: la rapida diminuzione dei nati è probabilmente sintomo di una tendenza a mantenere stabili le regole della ricchezza individuale e personale (da un rapporto di 20,6 nati per 1.000 abitanti nel ’61 si è passati a 18,6 nel ’72 e si arriva a 14,5 nel ’76); la rapida diminuzione dei matrimoni (7,8 per mille abitanti nel ’61, 7,5 nel ’72 e 5,8 nel ’76) dà l’impressione che non si voglia turbare la tendenza a far da soli sul problema più drammatico del momento e più importante per l’assetto urbanistico ed organizzativo della città; la deresponsabilizzazione verso i problemi delle zone periferiche (le stesse poche iniziative di stimolo alla partecipazione finiscono per collegarsi ai minuti aspetti dei quartieri, non ai problemi generali della città) è crescente ed è sintomo di un rinserramento reale in circuiti ristretti; il crescente abbandono della dimensione notturna della vita cittadina e il rinchiudersi nella vita casalinga e televisiva è sintomo della chiusura di una delle più tradizionali occasioni di vita collettiva; la perdita tra i giovani della spinta alla mobilitazione collettiva non è solo sintomo di stanchezza ideologica e politica ma anche spia di un più generale e collettivo riflusso esistenziale; la paura che spesso si respira in qualche quartiere ed in qualche giornata particolare è al tempo stesso sintomo e causa di una profonda tendenza ad una sicurezza familistica e casalinga; la stessa crescita nelle città di ristrette comunità religiose a prevalente componente mistica e/o esistenziale è significativa di quanto si cerchi di andare lontano da impegni collettivi e sociali.

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma possono bastare i fenomeni indicati per segnalare e dimostrare come Roma sia sempre più nel sociale come nell’economico una città “appiattita sul privato”, con tutti gli aspetti positivi e negativi e con tutti i problemi che ciò comporta. Tanto più che, come si può facilmente intendere, la vitalità economica di base ed il reflusso famiglisico si potenziano a vicenda formando un meccanismo combinato di notevole forza.

Quale giudizio si può dare di una tale situazione e come, se necessario, se ne può uscire?

Il giudizio non è così facile ed immediato come si potrebbe immaginare. Siamo stati per troppo tempo, in questi ultimi trenta anni, abituati al giudizio drastico, alla polemica forte, alla denuncia esemplare, alla condanna morale; il che ci ha portato a non capire più che tanto lo strano impasto di cui è composta la città: una realtà ad un tempo interclassista e borghese; impiegatizia e bottegaia; di sicurezza statale e di avventura individuale; di potere e di lassismo sgovernato; di occupazione garantita e di moltiplicazione di lavori occulti, doppi, parziali; di burocrazia pubblica e di privatizzazione spinta; di solidità strutturale di fondo e di labilità della dimensione sovrastrutturale (culturale, di politica cittadina, ecc.); di buon livello di qualità individuale e di basso livello di qualità collettiva. Ed è questo strano imposto che va capito e poi dipanato se non si vuole restare prigionieri o della facile denuncia o della facile accettazione dell’esistente, due facce della stessa prigionia, quella del fatalismo, così connaturato fra l’altro alla tradizione romana.

Per capire e dipanare la realtà romana (così come la si è sopra descritta ed interpretata: molecolarmente vitale, appiattita sul privato, pericolosamente desocializzata) occorre necessariamente sfuggire al pericolo di riprendere a fare quella “cultura delle vocazioni” della città che ha portato nel passato al fatto concreto di vederla governata. Occorre combattere cioè il tarlo illuministico che vede il futuro di Roma come il passaggio più o meno graduale verso una ipotesi stabilita ex-ante, intellettualmente quando non retoricamente: il passaggio a città della scienza, a city politica, a capitale più o meno sopranazionale. Roma è quello che è e va capita e governata partendo da quello che è, non da quello che vorremmo che fosse o che pensiamo necessario che sia.

L’impasto e gli intrecci sociali che la caratterizzano fanno di Roma un sistema sociale particolarmente complesso (un corpaccione talvolta inerte pur nella sua solidità di fondo, si potrebbe dire in parole diverse e meno tecniche) che è impossibile capire e governare con intuizioni di tipo generale ed onnicomprensive; e che impone di cambiare il metodo stesso di avvicinamento. In particolare se non si vuole che il sistema sociale romano, lasciato a se stesso e sgovernato come per il passato, vada incontro ad un’accentuazione di quell’imbarbarimento e di quella spaccatura di cui si è parlato all’inizio, allora occorre considerare il sistema da tre angoli visuali ed operativi:

quale intelaiatura sia necessario dargli (quale scheletro dare al corpaccione) perché non subisca pericolosi cedimenti ed incancrenimenti e perché possa anzi contare su un buon reticolo intermedio di riferimento e socializzazione;

quali inputs di innovazione possano essere messi in circuito per stimolare una vitalità non solo individuale e privatistica, ma anche sociale e collettiva in cui la comunità cittadina possa riconoscersi;

quali siano i gruppi e le sedi capaci di elaborare e portare avanti l’iniziativa e l’innovazione di natura sociale e collettiva.

Sul primo punto è noto su quali linee dal ’72 in poi Roma stia tentando di darsi un’intelaiatura articolata che stimoli e valorizzi la spinta di partecipazione (l’articolazione in 20 circoscrizioni, l’istituzione degli “aggiunti al sindaco”, la riforma dell’amministrazione, la istituzione dei consigli circoscrizionali eletti a suffragio diretto), ed è nota altresì l’attenzione e l’attesa che circondano le ormai prossime prime elezioni per i consigli circoscrizionali. Su un piano di generale razionalità ed impegno, una tale logica di decentramento è corretta e di prospettiva, ma occorre anche tener presenti alcuni aspetti che in qualche modo ne mettono in forse la possibilità di sfondare completamente: in primo luogo il fatto che ci si muove essenzialmente su una dimensione di decentramento ancora troppo formale ed amministrativa, il che non facilita di certo la coagulazione e la mobilitazione degli interessi reali; in secondo luogo il fatto che il periodo dal ’72 ad oggi ha visto anche il contemporaneo processo di sviluppo e declino delle esperienze dei comitati di quartiere (che hanno certo operato una buona mobilitazione, ma che erano troppo propensi a funzioni puramente rivendicazionistiche per non dover slittare su fasce di denuncia e di impegno politico, senza contare che rappresentavano pur sempre degli episodi e delle isole) il che fa pensare a molti che si sia su un’onda calante della dinamica di partecipazione; ed in terzo luogo il fatto che comunque le circoscrizioni sono oggettivamente squilibrate in termini di servizi culturali di base (il 75% delle strutture culturali e di terziario superiore sono collocate nelle prime tre circoscrizioni, mentre le altre 17 si dividono il restante 25%), il che fa pensare che il decentramento non possa assolvere di per se stesso alla stimolazione di nuove realtà culturali e sociali delle varie zone della città.

L’organizzazione circoscrizionale quindi non può da sola garantire una effettiva opera di promozione di una omogenea socializzazione di base; occorre sviluppare in coerenza con l’organizzazione circoscrizionale delle occasioni e sedi più molecolari, più a dimensione di comunità reale, più adatte a processi di reale partecipazione, al formarsi delle conoscenze e delle decisioni. Oggi lo fanno essenzialmente delle grosse organizzazioni di parte (come il PCI e la chiesa romana), ma occorre avere chiara l’esigenza che anche il reticolo intermedio civile deve essere il più possibile arricchito.

L’arricchimento maggiore comunque non viene da più o meno raffinate ed articolate operazioni di ingegneria istituzionale ed organizzativa, ma dalla capacità di dare al sistema sociale romano inputs adeguati di innovazione culturale e sociale. Non c’è dubbio infatti che la città non ha avuto negli ultimi cento anni adeguati stimoli innovativi: l’apparato statale e la sua espansione tutto potevano dare tranne che innovazione; la cultura è sempre stata più di assemblaggio strumentale (presenza in città di sedi ed occasioni diverse di fruizione artistica e culturale) che di elaborazione di ipotesi coerenti con la realtà della città; le grandi organizzazioni di terziario superiore (dall’università alla società di progettazione agli istituti di ricerca, ecc.) hanno costantemente trascurato nei fatti il tanto conclamato a parole “rapporto con il territorio”; la vita politica nazionale ha avuto sempre per Roma un atteggiamento di distacco dalle vicende locali; la vita politica locale oscilla da tempo su richiami un po’ troppo semplificati e brutali (dalle lotte per il potere nei teatri cittadini alle battaglie del tesseramento di partito) o un po’ troppo generici e vuoti (dalla funzione universale del corpaccione all’esigenza di mani pulite e corretta amministrazione). “Una folla di soli, un deserto di idee” verrebbe da dire un po’ provocatoriamente, pensando a quanto una città sia condannata a restare inerte se non è attraversata da un minimo di dialettica e di innovazione culturale.

Gli stessi gruppi e le stesse sedi che hanno tentato opera di approfondimento culturale (dalla chiesa romana dopo il Febbraio del ’74 ad alcuni istituti universitari ed alcuni movimenti più o meno spontanei ad alcuni grossi intellettuali) non sono andati al di là di una troppo evidente prigionia o nella dialettica politica o nella sottolineatura esigenziale dell’opportunità di maggiori meccanismi di mobilitazione collettiva e di socializzazione. Una riflessione culturale in senso proprio è mancata e non poteva esserci di conseguenza almeno stimolo di innovazione e di dialettica. Forse tutto ciò era ed è inevitabile in un periodo storico in cui la città sembra richiedere anzitutto la formazione di un processo di socializzazione, più che di sviluppo culturale, ma occorre anche ricordare che fra i due bisogni c’è stretta connessione.

Del resto l’innovazione non viaggia sulle pure idee, ma poggia sulle gambe di persone e di gruppi e si incarna nella capacità di creare e sostenere nuove strutture di azione cittadina. Tanto per fare esempi lontani si può ricordare che prima dell’unità la cultura romana (quella rasoterra, del popolo) era legata al peso delle categorie commerciali ed artigiane ed alle loro istituzioni (le università di arti e mestieri, le confraternite, ecc.); e che dopo l’unità le maggiori innovazioni istituzionali (dove c’erano però consapevolezza di tipo culturale) sono venute da quella zona di mondo cattolico che non aveva o voleva avere accesso a cariche pubbliche e che operò su linee esterne di cui ancora oggi sentiamo gli effetti epigonali, non si deve dimenticare infatti che rispetto alla vita cittadina hanno avuto peso –più che l’espandersi della macchina burocratica piemontese- le iniziative cattoliche in tutti i campi della realtà locale (la Società dei Molini, la Generale Immobiliare, la Società delle Tranvie e degli Omnibus, l’Artistica Operaia, allora la più importante banca cattolica, il Banco di Roma, ecc.). Certo è anche vero che c’era in tali iniziative una grossa componente di speculazione e di sfruttamento di rendita urbana, ma è anche certo che con la fine della spinta minoritaria dei cattolici (prima con l’egemonia fascista poi con la loro assunzione dei poteri amministrativi e politici della città) si è praticamente andata spegnendo ogni capacità inventiva, ogni innovazione reale della vita cittadina. Tutto si è appiattito sul privato più familistico (dalle case in palazzine ai consumi di beni durevoli) o sulle più insulse opere di regime (dagli sventramenti alle borgate alle opere dell’Olimpiade).

In effetti dove manca lo stimolo di specifici gruppi sociali, minoritari o no, una società non riesce a garantirsi innovazione, diventa sempre più “corpaccione sociale”, perde di conseguenza anche le connotazioni tradizionalmente legate al vecchio nucleo sociale dominante ed al centro urbano (le caratteristiche sempre più composite del flusso di immigrazione del ventennio ’51-’71 ed il processo combinato di svuotamento e terziarizzazione del centro storico ne sono la prova più evidente). Ed è evidente che, andando fatalmente Roma verso una struttura sociale sempre più interclassista, composita, di supremazia del ceto medio, non sarà facile garantire ad essa stimoli reali, non provocatori e regressivi (oltrechè omologhi perché provenienti dalla zona di più opaco ceto medio) come sono stati negli ultimi dieci anni gli stimoli provenienti dal mondo giovanile.

Le strade, per una riflessione sulle possibilità di avere combinazione tra innovazione e gruppi sociali, non vanno a Roma al di là di quattro ipotesi: il recupero anzitutto dei valori culturali delle componenti sociali più vitali (terziario commerciale, artigianato e di servizi) anche tenendo conto dei loro frequenti caratteri qualunquistici, ma mirando a ricomporre su forme diverse quel tessuto culturale e sociale che si esprimeva in passato nelle università di arti e mestieri e nelle confraternite; in secondo luogo l’attivazione di spinte ed iniziative di stampo minoritario (nel mondo intellettuale, in quello studentesco, in quello dell’alta borghesia affaristica, ecc.) che interpretino diverse linee e logiche di sviluppo ed organizzazione della città, creando innovazione anche disordinata ed al limite “speculativa”; in terzo luogo il consolidamento ed il dispiegamento di quella logica di “alta razionalizzazione” (in virtù della supremazia della politica) che si va tentando con l’attuale reale governo della città e che certo non può avere successo nel brevissimo periodo; in quarto luogo lo sviluppo della riflessione culturale e della presenza sociale della chiesa romana, delle varie forme e nei vari contenuti ad essa connaturati, dalla presenza di base al dibattito di sintesi.

Sono quattro strade sostanzialmente diverse, anche se non compatibili tra loro. Certo se si vuole intervenire a sostegno di un salto di qualità della convivenza collettiva a Roma occorre poter lavorare su tutte e quattro le strade, anche quelle che si rifanno a strutture vocazionalmente egemoniche e ad atteggiamenti sempre ai confini di una “chiesastica” autarchia culturale; occorre infatti ricordare che se, come si è detto nelle pagine precedenti, la vitalità della società romana è frammentata, articolata molecolarmente (e su un’intelaiatura intermedia solida) sono quelle che più possono venire incontro alla grande esigenza e domanda di socializzazione che viene dalla realtà.

In una logica più strettamente “laica”, attenta alla innovazione di punta e libera dai problemi di mobilitazione e socializzazione collettiva, le possibilità di lavoro culturale e sociale sono sostanzialmente riferite alla stimolazione ed al sostegno di aggregazione e di iniziativa neo-istituzionale (creatrice cioè di nuove sedi e strutture di azione, categoriale o no) o della fascia imprenditorialmente più vivace delle componenti di terziario commerciale, artigiano e di servizio; o delle isole di alta borghesia minoritaria che vogliano giocarsi qualcosa sul futuro della città. Si tratta in altre parole di reinterpretare e rilanciare l’esperienza associativa delle antiche università e confraternite di mestiere o l’esperienza minoritaria cattolica che portò alle tante iniziative della fine dello scorso secolo? Qualcuno potrebbe ironizzare sul valore di tale prospettiva, ma non si può negare che le uniche strade per sfuggire all’appiattimento impiegatizio (magari anche socializzato a livello di quartiere) stanno proprio nella ricerca di una vitalità –se esiste- delle minoranze cittadine.

Può darsi anche, del resto, che l’innovazione e l’iniziativa possano non servire, per un periodo abbastanza lungo, perché sarà prioritario l’impegno sulla non rinviabile opera di socializzazione ed aggregazione di base. Nel tal caso il lavoro sarà tutto all’interno dello scheletro del decentramento amministrativo e ad opera delle grandi forze collettive, anche attraverso significativi episodi elettorali; e sarà quindi meno interessante per chi non voglia e possa scendere su contese di fatto “di parte”. Resterà solo da sperare (e da premere) che tale lavoro sia il più possibile concreto e di base, senza retoriche o strumentali scivolate d’ala verso generali interpretazioni e generali indicazioni di ruolo, funzione, missione di una città il cui problema resta ancora e pesantemente quello di sottrarsi alla propria inerzia ed opacità.